Good Boy: Un Abisso di Solitudine e Presenze Inquietanti, Visto Attraverso gli Occhi di un Cane”Good Boy” emerge come un’opera singolare nel panorama del cinema horror soprannaturale, un debutto registico di Ben Leonberg che trascende i confini del genere per sondare le profondità della solitudine, della malattia e del lutto, filtrati attraverso la prospettiva ineguagliabile di Indy, un Nova Scotia Duck Tolling Retriever.
Il film, distribuito da Midnight Factory, apre parallelamente alla Festa del Cinema di Roma con “Alice nella Città”, un festival indipendente che ne amplifica la risonanza.
La trama si dipana attorno a Todd (Shane Jensen), un uomo sulla trentina, dilaniato da una patologia implacabile, e Indy, il suo fedele compagno canino.
La loro fuga dalla frenesia degli ospedali li conduce in una decadente dimora di famiglia, immersa nell’isolamento della campagna, un luogo intriso di memorie ancestrali e segreti inquietanti.
La decisione di Todd di rifugiarsi in questa casa, una sorta di mausoleo del passato, è un atto disperato, un tentativo di trovare un barlume di pace mentre la sua salute si deteriora inesorabilmente.
Indy, tuttavia, è il vero protagonista silenzioso, il tramite emotivo tra lo spettatore e l’orrore che si manifesta.
Non è un attore addestrato, né esibisce trucchi canini.
La sua autenticità risiede nella sua naturale curiosità, nella sua intelligenza pura.
Leonberg, che affianca alla regia anche la direzione della fotografia e la sceneggiatura con la sua compagna e produttrice, Kari Fischer, ha scelto di narrare la storia dal punto di vista del cane, un’audace scelta che consente di esplorare l’orrore non attraverso la lente della paura razionale, ma attraverso la percezione acuta e istintiva di un animale.
La casa, con la sua architettura fatiscente e le sue ombre danzanti, diviene un palcoscenico per presenze invisibili, un eco di tragedie passate.
Indy percepisce queste manifestazioni con una chiarezza sconcertante, reagendo con abbaiai incomprensibili, sguardi fissi nel vuoto, un linguaggio che trascende la comunicazione umana.
La sua esperienza si intreccia con la discesa nell’abisso di Todd, il quale, confinato nel suo isolamento, si immerge in una spirale di film horror e misteriosi filmini di famiglia, come a cercare conforto o a fuggire dalla realtà che lo attanaglia.
“Good Boy” non si limita a sfruttare i cliché del genere horror; si propone come un’indagine introspettiva sui temi universali della perdita, del lutto e del rapporto simbiotico tra uomo e animale.
La malattia di Todd, la solitudine che lo pervade e la morte che incombe sono amplificate dalla presenza di Indy, che sembra intuire la fragilità e la sofferenza del suo padrone con una sensibilità ineguagliabile.
L’ipotesi che i cani siano capaci di percepire aspetti della realtà al di là della comprensione umana, inclusi i segnali sottili della malattia e della morte, è al centro di questa riflessione.
L’ispirazione per la storia, come rivela Fischer, è nata durante la pandemia, un periodo segnato da un’epidemia di solitudine che, secondo quanto affermato dai servizi medici statunitensi, ha lasciato un’eredità di isolamento e disconnessione emotiva.
La scelta di raccontare la storia ad altezza di Indy ha permesso a Leonberg e Fischer di condividere attivamente il set con il cane, diventando “controfigure” di Todd e creando un legame emotivo palpabile tra i personaggi.
I gesti di affetto, le carezze e le interazioni sono autentici, alimentati da un rapporto reale e profondo.
Il film diventa così non solo un’esperienza horror, ma anche una celebrazione dell’amore incondizionato e della connessione profonda che può esistere tra un uomo e il suo cane.