Il 29 novembre 2021, una data che si prefigura come un presagio funesto, Renata Trandafir, a soli ventidue anni, si rivolse alle forze dell’ordine a Castelfranco Emilia, animata da un terrore palpabile e un profondo senso di insicurezza.
La sua denuncia, rivolta contro il patrigno Salvatore Montefusco, non era una semplice lamentela, ma un grido d’aiuto volto a interrompere un crescendo di abusi verbali e psicologici, che si temeva potessero sfociare in violenza fisica.
La giovane, presagendo un pericolo imminente, espresse esplicitamente la sua paura nei confronti dell’uomo, sottolineando il possesso di un’arma da fuoco, un elemento che accresceva ulteriormente l’urgenza della sua richiesta di protezione.
La segnalazione, formalizzata con il codice rosso, indicativo di una situazione di potenziale pericolo per l’incolumità della persona, avrebbe dovuto innescare una procedura di intervento rapido e mirato.
Invece, un inspiegabile ritardo burocratico, una lentezza inaccettabile, la fece transitare nella Procura di Modena solo il 4 gennaio 2022, oltre un mese dopo la denuncia iniziale.
Questa dilazione temporale, apparentemente marginale, si rivela tragicamente fatale, poiché il 13 giugno 2022, Salvatore Montefusco consumava il terribile omicidio di Renata e della madre, Gabriela, ponendo fine alle loro vite con una pioggia di proiettili.
L’episodio si inserisce nell’ambito di un procedimento giudiziario che coinvolge un carabiniere, accusato dalla moglie di aver omesso l’adempimento dei suoi doveri e di non aver formalizzato correttamente la denuncia presentata da Renata.
Questa omissione, se confermata, solleva interrogativi profondi sulla capacità dello Stato di tutelare le vittime di violenza domestica e sulla gravità delle conseguenze derivanti da disfunzioni procedurali.
La vicenda non si limita a una tragedia personale, ma si configura come un campanello d’allarme per l’intero sistema di protezione delle vittime di abusi.
Evidenzia la necessità di una revisione radicale delle procedure investigative, di una maggiore sensibilità verso le segnalazioni di pericolo e di una formazione più specifica per le forze dell’ordine, affinché siano in grado di cogliere i segnali di allarme e di intervenire tempestivamente, evitando che un grido d’aiuto si trasformi in un grido di dolore eterno.
La storia di Renata e Gabriela Trandafir è un monito severo e inaccettabile: la tutela della vita umana non può essere compromessa da ritardi burocratici o da omissioni procedurali.