L’ombra di un passato traumatico si allunga sul Beccaria, l’istituto penale minorile di Milano, un luogo che dovrebbe rappresentare un rifugio e un percorso di riabilitazione, ma che ora è al centro di un’inchiesta giudiziaria di proporzioni notevoli.
L’indagine, avviata dalla Procura della Repubblica, coinvolge un numero considerevole di persone, tra cui figure ecclesiastiche di spicco: Don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto per un lungo e significativo periodo di mezzo secolo, e il suo successore, Don Claudio Burgio.
L’accusa che grava sui due religiosi, inseriti nell’elenco dei 51 indagati, è quella di omessa denuncia, una grave omissione che solleva interrogativi cruciali sul ruolo e la responsabilità di chi, in posizione di guida spirituale, avrebbe dovuto proteggere i minori.
L’inchiesta, alimentata da un’informativa dettagliata della Squadra Mobile – un documento corposo di novecento pagine – rivela un quadro inquietante.
Secondo quanto emerge dall’indagine, i due cappellani avrebbero avuto piena consapevolezza delle violenze e delle angherie perpetrate all’interno del Beccaria.
Non si tratta di episodi isolati, bensì di una dinamica strutturale che ha coinvolto diversi attori, dall’équipe medica al personale amministrativo.
La gravità delle accuse è amplificata dalla natura delle presunte violenze: torture, percosse e maltrattamenti fisici e psicologici inflitti a minori vulnerabili.
La Procura si propone di ascoltare trentadue ex detenuti, un’operazione volta a cristallizzare le loro testimonianze, spesso cariche di dolore e di trauma, e a ricostruire la cronologia degli eventi.
Oltre agli agenti penitenziari direttamente accusati dei pestaggi, l’elenco degli indagati comprende ex direttrici dell’istituto, il comandante, medici e infermieri, tutti coloro che, a vario titolo, avrebbero assistito, taciuto o addirittura contribuito a coprire gli abusi.
L’indagine si presenta come un’esplorazione complessa e delicata, che va oltre la semplice individuazione dei responsabili diretti delle aggressioni.
Solleva interrogativi profondi sulla cultura istituzionale del Beccaria, sulla capacità di segnale di allarme, sui meccanismi di controllo interno e sulla responsabilità collettiva di fronte alla sofferenza dei minori.
La presenza di figure ecclesiastiche di rilievo, come i due cappellani, accentua la necessità di una riflessione etica e sociale, che coinvolga non solo il mondo giuridico, ma anche la Chiesa e la società civile nel suo complesso.
La riservatezza che circonda alcune parti dell’indagine, come l’omissione dei nomi dei sacerdoti e la segretezza di dieci pagine dell’informativa, suggerisce che le indagini sono ancora in corso e che potrebbero emergere ulteriori elementi di rilievo.
Questo caso non è solo un capitolo doloroso nella storia del Beccaria, ma anche un monito per tutte le istituzioni che si occupano della tutela dei minori, ricordando l’imperativo di garantire un ambiente sicuro, protettivo e rispettoso della dignità di ogni individuo.
La ricerca della verità e la garanzia di giustizia rappresentano un dovere imprescindibile per ristabilire la fiducia e avviare un percorso di cambiamento profondo.