La vicenda che mi vede coinvolta, la diffusione non autorizzata e manipolata delle mie immagini generate dall’intelligenza artificiale, trascende la sfera del personale per interrogare profondamente la nostra società.
Non ho agito per ricerca di visibilità, né per un gesto di sfida, bensì animata da un imperativo morale: dare voce a chi non l’ha, a chi si trova impotente di fronte alla violazione della propria dignità e della propria integrità.
Il pudore, spesso percepito come un limite, in questo contesto si rivela un campanello d’allarme, un segnale che indica la necessità di intervenire.
Il cuore del problema non risiede nella libertà di espressione, né nella possibilità di rappresentare il corpo umano in modi diversi.
La questione cruciale è la profanazione del consenso, l’uso improprio e privo di autorizzazione del corpo come strumento di oggetto, di rappresentazione alterata e decontestualizzata.
Ho scelto di non divulgare il nome della piattaforma che ha ospitato la violazione, non per proteggere la piattaforma stessa, ma per sottrarre ulteriore risalto a un atto di tale gravità.
Sono sollevata dal fatto che sia stato un uomo a portare alla mia attenzione questa vicenda.
Questo gesto testimonia un’evoluzione, una presa di coscienza da parte di una parte della società maschile, che comprende l’abuso non come un gioco innocuo, ma come un reato perseguibile.
Si avverte un risveglio di coscienza che, purtroppo, è ancora in una fase embrionale.
Non si tratta solo di applicare sanzioni, sebbene la repressione sia necessaria.
È imperativo promuovere un’educazione alla responsabilità digitale fin dalla più tenera età, instillando valori di rispetto e di empatia.
La cultura deve abbracciare un approccio critico nei confronti delle immagini che circolano online, incentivando la consapevolezza dei rischi e delle conseguenze delle azioni compiute nel cyberspazio.
Al di là delle misure legali e dell’educazione, è fondamentale costruire una rete di protezione, un’alleanza tra istituzioni, famiglie, scuole, media e forze dell’ordine.
Solo attraverso un impegno collettivo e trasversale possiamo aspirare a un cambiamento significativo, a tutela soprattutto delle nuove generazioni.
Il cyberbullismo, in tutte le sue forme, è un sintomo rivelatore delle nostre debolezze collettive, un riflesso delle fragilità e dei pregiudizi che ancora permeano la nostra società.
Come possiamo pretendere di proteggere i giovani se noi stessi perpetriamo comportamenti lesivi della dignità altrui? Dobbiamo essere, prima di tutto, un esempio di rispetto e di responsabilità.
La battaglia è politica, perché riguarda la salvaguardia del bene comune, la difesa dei diritti fondamentali e la costruzione di un futuro più giusto e inclusivo.








