L’eco di una giustificazione brutale risuona nell’aria densa di polvere e disperazione: “Occhio per occhio, dente per dente.
” La formula, antica come la sete di vendetta, si è fatta carne, trasformandosi in una spirale inarrestabile di violenza.
Il corpo umano, fragile e vulnerabile, si è scontrato con una forza implacabile, segnando la pelle con lividi, le ossa con fratture, lo spirito con traumi indelebili.
La responsabilità, come un capro espiatorio, è stata scaricata sulle spalle di Itamar Ben Gvir, ministro israeliano della Sicurezza nazionale.
La sua retorica intransigente, la sua esibizione di una politica di repressione nei confronti dei detenuti palestinesi, aveva gettato un’ombra sinistra, un presagio di ciò che sarebbe accaduto.
Le sue dichiarazioni pubbliche, intese a proiettare un’immagine di forza e determinazione, si erano materializzate in atti concreti di aggressione, perpetrati contro individui ancora prigionieri nelle mani di Hamas.
Ma ridurre la violenza a un mero effetto domino delle decisioni politiche di un singolo ministro, sarebbe un errore gravissimo.
Sarebbe ignorare la complessità di un conflitto secolare, un intreccio intricato di rivendicazioni territoriali, aspirazioni nazionali, risentimenti profondi e traumi generazionali.
Sarebbe negare il peso della storia, la sofferenza di entrambe le parti, la spirale di paura e sfiducia che alimenta l’odio.
La giustificazione “occhio per occhio” è un’illusione pericolosa.
Essa perpetua un ciclo di vendetta, un’escalation incontrollabile che non porta a una risoluzione, ma solo a una nuova ondata di sofferenza.
Essa confonde la giustizia con la rappresaglia, la sicurezza con la repressione.
Ignora che la vera sicurezza si fonda sulla giustizia, sulla dignità umana, sul rispetto dei diritti fondamentali.
L’evento, al di là delle singole responsabilità individuali e delle giustificazioni politiche, pone interrogativi urgenti sulla natura della giustizia, sulla necessità di una riconciliazione autentica, sulla possibilità di spezzare il ciclo della violenza.
Richiede un’analisi approfondita delle cause profonde del conflitto, un impegno concreto per la costruzione di un futuro basato sulla comprensione reciproca, sulla cooperazione e sulla pace.
Richiede, soprattutto, il coraggio di superare la logica della vendetta e di abbracciare un’etica della compassione e della responsabilità condivisa.
Il silenzio, in questi frangenti, è complicità.






