La sentenza d’appello di Brescia ha sancito la conferma, in via sostanziale, della condanna inflitta in primo grado a Piercamillo Davigo, figura centrale nel complesso e controverso caso legato alle presunte dinamiche occulte della Loggia Ungheria.
La pena, quantificata in un anno e tre mesi di reclusione, deriva dalla contestazione di rivelazione di segreti d’ufficio, un reato particolarmente delicato che tutela la riservatezza delle indagini e la loro corretta conduzione.
La vicenda si è snodata attraverso un percorso giudiziario tortuoso, segnato da un’iniziale condanna, successiva impugnazione in appello e, infine, una decisione della Corte di Cassazione che ha aperto la strada a questo secondo grado di giudizio.
La Cassazione, pur confermando la responsabilità di Davigo per la divulgazione di informazioni coperti da segreto, ha ravvisato vizi procedurali nella determinazione di una specifica parte della condanna relativa alla diffusione a terzi, rimettendo la questione a un nuovo scrutinio da parte della corte d’appello.
Il caso, che coinvolge la presunta esistenza di una loggia massonica deviata e l’accesso a verbali di indagini giudiziarie, ha scatenato un acceso dibattito sulla separazione dei poteri, il diritto alla trasparenza e i limiti dell’indipendenza giudiziaria.
L’avvocato Piero Amara, figura chiave nel trasferimento dei documenti riservati, e il procuratore aggiunto Paolo Storari, che ha materialmente consegnato i verbali a Davigo, hanno rivestito ruoli cruciali in questa complessa vicenda.
La divulgazione di atti coperti da segreto, come quelli relativi alle indagini sulla Loggia Ungheria, solleva interrogativi profondi sulla necessità di salvaguardare la riservatezza delle indagini preliminari, garantendo al contempo il diritto dei cittadini a conoscere le vicende che li riguardano.
Il segreto giudiziario, infatti, è uno strumento essenziale per proteggere l’oggettività delle indagini, evitare pregiudizi nei confronti degli indagati e tutelare la loro reputazione.
Tuttavia, un’applicazione eccessivamente restrittiva potrebbe compromettere il diritto all’informazione e ostacolare il controllo democratico sull’azione della magistratura.
La sentenza d’appello di Brescia, pur ribadendo la responsabilità di Davigo, apre un nuovo capitolo di questo intricato caso, con la necessità di valutare nuovamente la specifica porzione di condanna relativa alla divulgazione a terzi, al fine di garantire una decisione pienamente conforme alla legge e ai principi costituzionali.
La vicenda continua a rappresentare un banco di prova per il sistema giudiziario italiano, interrogato sulla sua capacità di bilanciare la tutela dei segreti d’ufficio con il diritto alla trasparenza e la garanzia di un giusto processo.







