La vicenda della famiglia trasferitasi in una dimora isolata nel bosco, e la conseguente sottrazione dei tre minori affidati ai genitori da parte dei servizi sociali del Tribunale dei Minorenni de L’Aquila, solleva interrogativi profondi e inquietanti sul delicato equilibrio tra libertà educativa, tutela minorile e applicazione imparziale della legge.
Condivido la posizione espressa dal Vicepresidente del Consiglio e Segretario della Lega, Matteo Salvini, poiché l’intera situazione appare gravida di elementi che meritano un’attenta revisione critica.
La scelta genitoriale di allontanarsi dai centri abitati, optando per uno stile di vita radicato nella natura e incentrato su un’educazione alternativa, non costituisce, di per sé, una violazione dei diritti dei minori.
Questi genitori, cittadini britannici, ambivano a offrire ai propri figli un percorso formativo differente, complementare all’istruzione impartita da una docente privata, in un ambiente ritenuto più sano e stimolante.
La volontà di trasmettere valori legati al rispetto dell’ambiente, all’autonomia e alla resilienza, pur nella diversità, non dovrebbe essere automaticamente considerata un campanello d’allarme.
Tuttavia, l’intervento percisivo dello Stato, con la rimozione dei bambini dalla tutela genitoriale, genera un profondo sconcerto.
Si pone la questione: qual è il limite entro il quale lo Stato può intervenire nella sfera privata della famiglia, limitando il diritto dei genitori di educare i propri figli secondo i propri convincimenti? La critica lanciata dal deputato Rossano Sasso, capogruppo in commissione Scienza, Cultura e Istruzione, coglie nel segno.
Si prospetta una disparità di trattamento che appare inequivocabile.
Si tollera, in maniera virtualmente passiva, la condizione di disagio e marginalizzazione in cui versano centinaia di bambini rom, esposti a forme di sfruttamento e ad un percorso di vita privo di prospettive, senza che il sistema giudiziario si attivi con la stessa sollecitudine e severità dimostrata in questo caso specifico.
Questa apparente selettività nell’applicazione della legge suggerisce una preoccupante tendenza a privilegiare giudizi basati su pregiudizi etnici o culturali, piuttosto che su una valutazione obiettiva dei bisogni e del benessere dei minori.
La distinzione tra una famiglia “diversa” e una comunità rom, trattate con standard giudiziari differenti, rivela una problematicità che va al di là della singola vicenda.
Essa riflette un dibattito più ampio sulla definizione di “tutela minorile” e sui criteri che devono guidare l’intervento dello Stato nella sfera familiare.
È imperativo che i giudizi siano fondati su prove concrete di negligenza o abuso, e non su preconcetti o su interpretazioni soggettive di “normalità”.
La diversità culturale e l’originalità pedagogica non devono essere automaticamente equiparati a una minaccia per il benessere dei minori, ma rappresentare un’opportunità per arricchire la nostra società e promuovere un approccio più inclusivo ed empatico nei confronti delle famiglie.
La questione, in definitiva, non è solo quella di restituire i bambini ai genitori, ma anche di riformare profondamente un sistema che rischia di perpetuare ingiustizie e discriminazioni.








