Ilva, un grido di rabbia e dignità da Taranto

Il grido di Stefania De Virgilis, quarantanove anni, delegata sindacale Uilm e voce spenta di un’area staff dell’ex Ilva, è l’eco di un’angoscia collettiva.

Non è semplice disperazione, ma un’amara constatazione della fine di una promessa, del disfacimento di un futuro che sembrava scontato.

La vertenza siderurgica, lungi dall’essere una mera questione economica, si rivela un baratro che inghiotte intere famiglie, un abisso di incertezze che erode la dignità e la speranza.

Il sentimento prevalente non è tanto la paura del domani, quanto la rabbia per un presente già segnato dalla precarietà.

Un presente in cui il lavoro, pilastro fondamentale dell’esistenza, si trasforma in una fonte inesauribile di ansia e frustrazione.
L’accusa è rivolta a un sistema, a forze politiche ed economiche che la strumentalizzano, che la usano come pedina in un gioco a somma zero, senza curarsi delle conseguenze umane.

“Strumentalizzati”, è il termine che racchiude il senso di impotenza e di tradimento.
Le famiglie, il vero motore di questo dramma, sono sacrificate sull’altare di interessi che trascendono la loro realtà quotidiana.

I sacrifici, i rinunce, la lotta per la sopravvivenza, si scontrano con un vuoto di risposte, con la sensazione di essere invisibili agli occhi del potere.
La questione dell’Ilva, al di là delle sue complessità tecniche e giuridiche, è l’incarnazione di un problema sociale più ampio: la fragilità di un territorio interamente dipendente da un’unica fonte di occupazione.

Il destino di Taranto, e di tante altre realtà industriali del Mezzogiorno, è legato indissolubilmente a quella fabbrica, simbolo di sviluppo e, al tempo stesso, di sfruttamento.

La richiesta di aiuto alla città non è un atto di sottomissione, ma un appello alla coscienza civile, un tentativo disperato di trovare un’ancora di salvezza.
La solidarietà, in questo contesto, assume un valore inestimabile, un baluardo contro l’oblio e l’abbandono.

Non si tratta di conoscere le storie di tutti, ma di condividere la sofferenza dei propri colleghi, di comprendere la comune condizione di precarietà.
Stefania De Virgilis non chiede l’elemosina, non si definisce “parassita”.
Si professa lavoratrice, desiderosa di contribuire attivamente alla società.

L’obiettivo non è la cassa integrazione, ma un lavoro dignitoso, un’opportunità di ricostruire il proprio futuro dopo ventinove anni di dedizione.
Il rifiuto non è rivolto al lavoro stesso, ma all’ingiustizia, alla negazione del diritto a una vita stabile e sicura.

È un grido di dignità che reclama un futuro, non una sopravvivenza a intermittenza.

- pubblicità -
- Pubblicità -
- pubblicità -
Sitemap