Il 22 gennaio 2011 segnò l’inizio di una nuova fase nell’esistenza di Totò Cuffaro, quando varcò il portone del carcere di Rebibbia, condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia.
Un capitolo doloroso di una carriera politica apparentemente in ascesa, costellata di ambizioni e vicinanze problematiche con ambienti criminali.
L’esperienza detentiva, protrattasi per quasi cinque anni, venne interrotta da un periodo di volontariato in Burundi, un’iniziativa che, pur nella sua apparente generosità, non riuscì a cancellare la pesantezza del passato.
Il ritorno in Italia fu caratterizzato da una riemersione nel panorama politico, con la ripresa di un ruolo attivo all’interno della Democrazia Cristiana, un partito in cerca di redenzione e di nuovi leader.
Cuffaro si presentò come una figura chiave, proiettato verso posizioni di potere e influenza.
Questa parabola, tuttavia, si è interrotta bruscamente con l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari di Palermo, Carmen Salustro.
Le accuse, ora pesanti come macigni, includono associazione a delinquere, turbativa d’asta e corruzione, reati che dipingono un quadro di collusione e manipolazione del potere pubblico.
Il provvedimento, richiesto dalla Procura di Palermo, testimonia una nuova indagine che scava nel passato e nelle possibili derive di comportamenti illeciti.
L’assenza del braccialetto elettronico, sebbene apparentemente meno restrittiva, è bilanciata da un rigido divieto di comunicazione, una misura preventiva volta a impedire qualsiasi forma di contatto con complici, indagati o soggetti esterni, pubblici o privati.
L’ordinanza, maturata a partire da una richiesta emessa nei primi mesi di novembre, ha provocato un terremoto all’interno della Democrazia Cristiana, con la conseguente rinuncia di Cuffaro al ruolo di segretario nazionale e la rimozione di due assessori democristiani dalla giunta regionale siciliana, guidata da Renato Schifani.
Questo episodio non solo segna un ritorno inaspettato in un contesto giudiziario avverso per Cuffaro, ma solleva interrogativi profondi sulla tenuta e l’affidabilità delle istituzioni democratiche, sulla necessità di un rinnovamento morale e politico e sulla complessità di spezzare catene di connivenze che affliggono la società siciliana e nazionale.
La vicenda si configura, ancora una volta, come monito per una classe politica chiamata a confrontarsi con il proprio passato e a ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini.





