La vicenda di Maurizio Di Stefano, imprenditore bolognese e testimone di una dolorosa storia di racket in Sicilia, si configura come un’amara riflessione sull’incoerenza del sistema giudiziario e sulla fragilità delle vittime di estorsione.
L’udienza fissata per il 20 gennaio 2027 presso il tribunale civile di Catania, in merito alla contestazione di una cartella esattoriale da 150.
000 euro, evidenzia un’attesa prolungata e una burocrazia lenta che mina la speranza di giustizia.
Di Stefano, un tempo libraio nel cuore di Catania, fu costretto a cessare l’attività a causa delle intimidazioni mafiose.
Trasferitosi a Bologna, ha ricostruito la propria esistenza aprendo un ristorante, “Liccu”, un’oasi di sapori siciliani in via Ranzani.
Un percorso di resilienza reso possibile, in parte, grazie ai finanziamenti ricevuti dal fondo nazionale per le vittime del racket.
L’amara ironia della situazione risiede nella revoca di tali finanziamenti.
L’Agenzia delle Entrate ha richiesto la restituzione dell’intera somma, motivando la decisione con un’interpretazione restrittiva delle norme che regolano l’accesso al fondo.
Sebbene le indagini scaturite dalle denunce di Di Stefano abbiano portato a condanne per usura, l’ipotesi di estorsione, inizialmente contestata, è stata archiviata dall’autorità giudiziaria catanese.
Questa sottile distinzione giuridica, apparentemente tecnica, si traduce in un ingiusto onere economico per la vittima.
La vicenda solleva interrogativi profondi sulla definizione stessa di “vittima di estorsione” e sulla capacità del sistema giudiziario di tutelare efficacemente chi subisce tali intimidazioni.
La richiesta di restituzione, giunta a distanza di anni dalle denunce, rischia di compromettere la fragile stabilità economica dell’attività commerciale di Di Stefano.
La sua domanda retorica – “Cosa devo restituire? Il forno? Il frigorifero?” – esprime un senso di frustrazione e impotenza di fronte a un sistema che, a suo avviso, lo penalizza anziché sostenerlo.
Il caso Di Stefano non è un’eccezione isolata, ma un campanello d’allarme che evidenzia la necessità di una revisione delle procedure e di una maggiore sensibilità verso le vittime di racket, spesso costrette a confrontarsi con lunghe attese, interpretazioni restrittive e difficoltà economiche.
L’attesa fino al 2027, aggravata dalla mancanza di urgenza del caso e dalla sua non inclusione tra le priorità del PNRR, simboleggia la distanza tra il diritto alla giustizia e la sua effettiva realizzazione.
Il processo, nel suo protrarsi, rischia di vanificare gli sforzi di una persona che ha cercato di ricostruire la propria vita e di testimoniare, con coraggio, la sua esperienza.