La recente assoluzione di un militare ad opera del Tribunale di Catania, seguita al controverso episodio universitario che aveva suscitato un acceso dibattito pubblico, solleva interrogativi profondi sul delicato rapporto tra accusa, prova e tutela delle vittime di violenza. Il dispositivo, emesso a gennaio e corredato da una corposa motivazione di oltre sessanta pagine, ripercorre una vicenda complessa, segnata dalla nascita di un figlio, accuse di maltrattamenti, stalking, lesioni e, potenzialmente, coercizione all’aborto. La richiesta di condanna a nove anni, respinta dal collegio giudicante, evidenzia la gravità delle accuse mosse.Al centro del giudizio, la difficoltà di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, una dinamica di sistematica sopraffazione. Il Tribunale ha espresso riserve sull’efficacia del “corredo probatorio”, ritenendolo insufficiente a delineare un quadro inequivocabile di abuso reiterato. La credibilità della testimonianza della donna, elemento centrale nel processo, è stata oggetto di un’analisi particolarmente approfondita, con particolare attenzione al lasso di tempo intercorso tra gli episodi denunciati e la formale querela, in relazione alla paternità del figlio.Un elemento cruciale, un’immagine raffigurante un labbro tumefatto, un occhio gonfio e un ematoma al braccio, unitamente alla testimonianza della madre, non sono stati ritenuti sufficienti a corroborare le accuse. La mancata narrazione degli abusi a un carabiniere intervenuto in casa nel 2018, nonostante la presenza di segni fisici (arrossamenti al braccio), ha sollevato ulteriori interrogativi sull’attendibilità della ricostruzione dei fatti. Nonostante un certificato medico del pronto soccorso del marzo 2018 attestasse una prognosi di dieci giorni per trauma addominale, tentato strangolamento ed ematomi diffusi, il Tribunale ha espresso riserve sulla completezza e l’interpretazione delle prove. Le dichiarazioni del figlio maggiore della vittima, che riferiva di aver udito la madre urlare, sono state messe in discussione alla luce delle stesse parole della donna, che descriveva una condizione di afonia. Inoltre, i giudici hanno espresso la possibilità che si sia trattato di uno scontro reciproco, rendendo difficile l’individuazione dell’aggressore e della vittima, un elemento che mina la certezza della dinamica ricostruita. Questo scenario solleva interrogativi sulla complessità di stabilire la verità in contesti di violenza domestica, dove la dialettica tra potere, vulnerabilità e manipolazione può offuscare i confini della responsabilità e rendere la giustizia un percorso arduo e impervio. L’episodio, quindi, riapre il dibattito sulla necessità di rafforzare le procedure probatorie e garantire un’interpretazione più sensibile e attenta alle dinamiche di potere presenti nelle relazioni abusive.