La crescente emergenza delle migrazioni legate al cambiamento climatico rappresenta una delle sfide più urgenti del nostro tempo, un fenomeno che trascende confini nazionali e solleva questioni etiche, legali e umanitarie di profonda portata. Sebbene manchi una definizione giuridica universalmente accettata, il dato demografico è inequivocabile: nel 2023, oltre 33 milioni di persone sono state costrette a spostarsi all’interno dei propri paesi, sfollate interne, in fuga da condizioni ambientali insostenibili. Questo quadro allarmante è stato oggetto di riflessione durante il Venice Climate Week, con l’intervento illuminante della consulente delle Nazioni Unite, Angelica De Vito, che ha messo in luce la complessità e la gravità della situazione.Le migrazioni climatiche non sono semplicemente il risultato di eventi meteorologici estremi, ma il prodotto di una vulnerabilità strutturale che colpisce le comunità più fragili del pianeta. La carenza di risorse vitali come cibo e acqua, esacerbata da siccità prolungate, inondazioni devastanti, innalzamento del livello del mare e desertificazione, crea condizioni di inabitabilità che costringono le persone ad abbandonare le proprie case in cerca di sopravvivenza. La perdita di mezzi di sussistenza, la compromissione della salute e la perdita di identità culturale sono solo alcune delle conseguenze traumatiche che questi migranti affrontano quotidianamente.Anche l’Italia, paese ricco di storia e cultura, non è immune a questo fenomeno. Nel 2023, secondo i dati presentati da De Vito, circa 150.000 italiani sono stati costretti a lasciare le proprie terre, con particolare intensità in Emilia-Romagna, devastata da alluvioni, e in Sicilia, afflitta da una crisi idrica cronica. Questi numeri non sono solo statistiche, ma rappresentano storie di persone costrette ad abbandonare le proprie radici, le proprie comunità e il proprio patrimonio.La questione giuridica è cruciale: come inquadrare legalmente le migrazioni climatiche? La comparazione con le persecuzioni, che costituiscono motivo di richiesta di asilo, offre un’analogia interessante, ma insufficiente. L’azione del cambiamento climatico, sebbene spesso indiretta, è un fattore dirompente che mina i diritti umani fondamentali, rendendo la sopravvivenza stessa impossibile in determinate aree. Il dilemma risiede nella difficoltà di stabilire un nesso di causalità diretto tra un singolo evento climatico e la decisione di migrare, ma la realtà è che il cambiamento climatico agisce come un moltiplicatore di vulnerabilità, esacerbando conflitti preesistenti e creando nuove forme di disuguaglianza.Angelica De Vito ha giustamente sottolineato la necessità di un’attenzione prioritaria a questo tema, proponendo la creazione di una categoria giuridica specifica per i migranti climatici. Un simile riconoscimento non solo offrirebbe protezione legale a coloro che sono costretti a spostarsi, ma anche stimolerebbe l’azione politica e la cooperazione internazionale per affrontare le cause profonde del fenomeno. La creazione di una cornice giuridica dedicata non dovrebbe essere intesa come un’alternativa alle politiche di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico, ma come un complemento necessario per garantire la dignità e i diritti di coloro che sono già vittime delle sue conseguenze. L’innovazione legale, in questo caso, deve andare di pari passo con l’impegno politico e la solidarietà umana.
Migrazioni Climatiche: Un’Emergenza Umanitaria e Legale
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