La vicenda di Libera, la donna toscana di 55 anni affetta da una paralisi completa che la rende incapace di somministrarsi autonomamente il farmaco letale per accedere al suicidio assistito, solleva interrogativi complessi che hanno portato la Corte Costituzionale ad affrontare una delicata questione di legittimità.
La decisione della Consulta, pur nella sua forma di dichiarazione di inammissibilità, getta luce su un punto cruciale del dibattito bioetico italiano: i limiti procedurali e sostanziali all’esercizio del diritto al fine vita.
La questione di legittimità costituzionale dell’articolo 579 del codice penale – la disposizione che incrimina l’omicidio del consenziente – era stata sottoposta all’attenzione della Corte.
Il fulcro della contestazione risiedeva nella difficoltà, o presunta irraggiungibilità, dei dispositivi di autosomministrazione necessari per la realizzazione del percorso di suicidio assistito, un ostacolo che, secondo i ricorrenti, comprometteva il diritto fondamentale di Libera a disporre autonomamente della propria esistenza.
Tuttavia, la Corte Costituzionale, nella sua decisione, ha ravvisato un difetto di motivazione alla base della questione sollevata.
Questo non significa necessariamente che il diritto di Libera sia stato negato in modo assoluto.
Piuttosto, indica che la Corte non ha ritenuto sufficientemente dimostrata la connessione causale tra l’impossibilità di autosomministrarsi il farmaco e la violazione di un diritto costituzionale.
In altre parole, la motivazione addotta non ha fornito una base giuridica solida per dichiarare incostituzionale la normativa vigente.
La decisione della Consulta apre un ventaglio di interpretazioni e possibili sviluppi.
Essa non chiude il dibattito sul suicidio assistito, ma ne riafferma la complessità e la necessità di un’analisi approfondita.
L’assenza di una regolamentazione organica in materia, infatti, lascia spazio a interpretazioni divergenti e a situazioni di incertezza giuridica.
Si pone, quindi, la questione dei dispositivi di assistenza.
La loro reperibilità, la loro accessibilità e le modalità di utilizzo rappresentano elementi chiave per garantire il rispetto della volontà di chi, in condizioni di sofferenza intollerabile e irreversibile, desidera porre fine alla propria esistenza.
La mancanza di chiarezza su questo punto solleva dubbi sulla reale attuazione del diritto al fine vita, come riconosciuto in alcune pronunce della giurisprudenza e come oggetto di un acceso dibattito in sede parlamentare.
La vicenda di Libera, e la successiva decisione della Corte Costituzionale, evidenziano, in definitiva, la necessità di un confronto aperto e costruttivo tra giurisprudenza, legislazione e sensibilità etica, al fine di individuare soluzioni che concilino il rispetto dei diritti fondamentali, la tutela della dignità umana e la salvaguardia della vita.
Il diritto al fine vita non può essere ridotto a una mera questione tecnica o procedurale; esso implica una riflessione profonda sui valori che guidano la nostra società e sulla responsabilità che abbiamo nei confronti di chi soffre e desidera scegliere il momento e le modalità della propria scomparsa.