La pallavolo, disciplina che esige agilità, potenza e una precisione millimetrica, si scontra spesso con la realtà biologica della maternità.
Asja Cogliandro, talento emergente nel mondo del volley, ha recentemente condiviso con *La Stampa* un racconto intimo e complesso, ben lontano da un semplice aneddoto, che esplora le sfide e le contraddizioni affrontate da un’atleta in gravidanza.
La sua storia non è un’eccezione, ma rivela una problematica più ampia, un silenzio assordante che spesso avvolge le esperienze delle donne sportive che desiderano conciliare la carriera e la genitorialità.
La narrazione di Cogliandro svela un’atmosfera di incomprensione, un senso di isolamento accentuato dalla pressione implicita a “scomparire” dal panorama sportivo, quasi a voler preservare un ideale di performance atletica che non contempla la maternità.
Queste parole, “lapidari, volevano proprio che mi levassi di mezzo”, non sono solo un laconico riassunto di un colloquio, ma evocano un clima di giudizio e aspettative contrastanti.
Rappresentano la difficoltà di un sistema sportivo, a volte ancorato a modelli obsoleti, nell’accogliere e supportare le atlete che scelgono di diventare madri.
Si percepisce la paura, forse inconsapevole, di una perdita di competitività, un timore che spinge a marginalizzare chi non rientra nel canone dell’atleta “perfetta”.
La vicenda di Cogliandro non si limita a denunciare un atteggiamento negativo, ma solleva interrogativi cruciali sulla necessità di un cambiamento culturale nel mondo dello sport.
È fondamentale promuovere una maggiore consapevolezza e sensibilità verso le esigenze delle atlete madri, offrendo loro supporto e opportunità per continuare a competere al massimo livello anche dopo la gravidanza.
La sua testimonianza è un invito a superare i pregiudizi e a costruire un ambiente sportivo più inclusivo, che valorizzi non solo la performance atletica, ma anche la forza e la resilienza delle donne che riescono a coniugare la passione per lo sport con la gioia della maternità.
Si tratta di un percorso che richiede un ripensamento profondo dei modelli di riferimento, un cambiamento che può beneficiare non solo le atlete madri, ma l’intero movimento sportivo, arricchendolo di nuove prospettive e valori.
Il racconto di Asja Cogliandro è, in definitiva, una voce coraggiosa che reclama spazio e riconoscimento per le donne che sfidano gli stereotipi e dimostrano che la maternità non è un limite, ma una straordinaria forza vitale.