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Bobò: Un Incontro, un Film, un’Anima Oltre le Parole

Il 1995 segna un incontro enigmatico, un’irruzione silenziosa nel racconto di una vita: Bobò, residente da trentasei anni presso il manicomio di Aversa, e il regista Pippo Delbono, giunto lì per un laboratorio teatrale.

Difficile, se non impossibile, sondare l’interiorità di Bobò in quel momento cruciale.

La sua esistenza, segnata da sordomutezza, analfabetismo e microcefalia, si esprimeva in un linguaggio proprio, un universo di gesti e vocalizzazioni incomprensibili a chi non fosse iniziato alla sua peculiare sintassi.

Eppure, quando Delbono ripresentò la proposta di portarlo via, si percepì una gioia palpabile, un’apertura verso un futuro inatteso.

Col passare del tempo, questa felicità si consolidò, come testimoniano le parole del regista.

A sei anni dalla sua scomparsa, Delbono gli dedica un film, “Bobò”, opera che debutterà al Festival di Locarno e che sarà distribuita nelle sale cinematografiche in prossimità della Giornata Mondiale della Salute Mentale, il 10 ottobre.

Il film non è una biografia convenzionale, ma un’esplorazione del potere trasformativo dell’arte e della dignità umana.

Bobò si rivelò presto essere molto più di un semplice interprete; era un mimo innato, un ballerino intuitivo, un artista puro.

La sua sensibilità all’armonia musicale, nonostante la sua sordità, era sorprendente: un cambio di melodia lo spingeva a modulare il suo movimento, a creare nuove sequenze coreutiche.

Per vent’anni, divenne una figura cardine nel teatro di Delbono, guadagnando un riconoscimento internazionale.

L’incontro con Bobò si inserì in un periodo di profonda crisi personale per il regista, segnato dalla scoperta dell’HIV e da una grave depressione.
La rielaborazione artistica della figura di Bobò rappresentò un percorso di rinascita, una fonte di forza e coraggio.
La comunicazione tra i due era un atto continuo di decodifica, un’immersione in una lingua in costante evoluzione.
“Parlavamo con gli occhi,” racconta Delbono, “avevamo un modo di guardarci che era unico, un linguaggio silenzioso e profondo.
” Questo sguardo, questo contatto, superava le barriere linguistiche e culturali, creando un legame intenso e irripetibile.

Al di là delle diagnosi mediche, che lo etichettavano come “per sempre un bambino,” Bobò manifestava una saggezza inaspettata.
La sua presenza, silenziosa e osservante, spesso placava le tensioni all’interno della compagnia.

Il suo silenzio, paradossalmente, incarnava la vera essenza del teatro: un mistero da contemplare, un enigma da risolvere.
Le sue interpretazioni, intuitive e spontanee, rivelavano un’armonia interiore profonda, una comprensione istintiva del dramma umano.
La domanda “chi dei due fosse l’attore migliore” trova una risposta immediata e inequivocabile: Bobò.

Un verdetto che non è solo un omaggio, ma una profonda riflessione sulla natura stessa dell’arte e sulla capacità di comunicare al di là delle parole.

Bobò ha dimostrato che la vera recitazione non risiede nella padronanza del linguaggio, ma nella capacità di esprimere l’anima.

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