La Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, come molti altri istituti penali italiani, si trova a fronteggiare una complessa e drammatica realtà, esacerbata da una sovrapposizione di fattori strutturali e sociali.
I recenti dati emersi dall’iniziativa “Ferragosto in Carcere”, promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane e documentata da una visita della Camera Penale Bolognese, rivelano un quadro allarmante: quasi la metà della popolazione detenuta, precisamente 358 individui su una popolazione totale di 787, è certificata come affetta da dipendenza da sostanze stupefacenti.
Questa concentrazione di fragilità emerge in un contesto già compromesso dal marcato sovraffollamento, con un numero di detenuti che supera di gran lunga la capienza regolamentare di 457 posti.
L’aumento incessante degli ingressi, con un centinaio di nuovi detenuti solo nel mese di luglio, contribuisce a incrementare la pressione sull’istituto e sulle risorse disponibili.
A questo si aggiunge la significativa presenza di detenuti stranieri, che rappresentano una parte preponderante della popolazione carceraria, un dato che riflette le complesse dinamiche migratorie e le sfide legate all’integrazione sociale.
Tuttavia, l’aspetto che desta maggiore preoccupazione è la gravità delle condizioni di salute mentale e fisica dei detenuti.
La presenza massiccia di tossicodipendenti certificati non solo evidenzia una profonda criticità sociale, ma solleva interrogativi sulla gestione della salute in carcere.
L’assenza di percorsi terapeutici adeguati e la difficoltà di indirizzare questi individui verso comunità terapeutiche, dove potrebbero ricevere il supporto necessario per il recupero, contribuiscono a perpetuare un circolo vizioso di marginalità e sofferenza.
La possibilità di trattamenti specifici, mirati alla riabilitazione e all’integrazione, si scontra con risorse limitate e un sistema sanitario carcerario spesso inadeguato.
Il tragico bilancio delle morti in carcere aggrava ulteriormente la situazione.
Dall’inizio dell’anno, ben 146 persone hanno perso la vita mentre erano affidate alla custodia dello Stato, con un numero significativo di decessi in circostanze ancora da chiarire, tra cui due nel carcere di Bologna.
Il tasso di suicidio, pari al 31,5%, è particolarmente elevato e riflette la disperazione e la mancanza di prospettive che affliggono molti detenuti.
Questi dati non sono semplici numeri, ma rappresentano la perdita di vite umane, spesso di giovani persone, schiacciate da un sistema penale che sembra incapace di offrire un’alternativa alla spirale di degrado e violenza.
La situazione di Bologna, purtroppo, non è un caso isolato, ma il riflesso di una crisi sistemica che richiede un profondo ripensamento delle politiche penali e dell’attenzione dedicata alla riabilitazione e all’integrazione dei detenuti.
È imperativo investire in programmi di salute mentale, trattamenti specifici per le tossicodipendenze e percorsi di reinserimento sociale, promuovendo un modello di giustizia più umano e orientato alla risarcimento e alla prevenzione della recidiva, piuttosto che alla mera punizione.
La dignità umana, anche all’interno delle mura carcerarie, deve rimanere un valore imprescindibile.