sabato 16 Agosto 2025
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Suicidio in carcere: l’Italia affronta un’emergenza silenziosa.

La recente scomparsa di un uomo di 53 anni, deceduto nel carcere di Benevento dopo solo quattro giorni di detenzione, solleva interrogativi urgenti e dolorosi sul sistema penitenziario italiano e sulla sua capacità di garantire la tutela della vita e della dignità umana.

Le circostanze del gesto, al momento oggetto di indagine magistrale, contribuiscono a una spirale di silenzio e di incomunicabilità che avvolge troppo spesso la realtà carceraria.
Questo tragico evento non è un caso isolato, ma il quinto suicidio registrato in Campania dall’inizio dell’anno, a cui si aggiunge un decesso in una Residenza per l’Assistenza a Persone con Disturbi Mentali (REMS), un’ulteriore eco di vulnerabilità e disagio psichico in un contesto di privazione di libertà.
La tendenza, inesorabile, rischia di trasformarsi in una vera e propria “strage di Stato”, un eufemismo che denota una responsabilità collettiva e una profonda inadeguatezza delle risposte istituzionali.

La minimizzazione, spesso implicita o esplicita, delle morti in carcere da parte del Governo rivela una pericolosa distanza dalla realtà del sistema, un sistema che, lungi dall’essere un luogo di riabilitazione e reinserimento sociale, appare sempre più un contenitore di sofferenza e disperazione.
Questa indifferenza, diffusa e generalizzata, è una sconfitta non solo della giustizia, ma anche delle ambizioni di una società civile che si dichiara attenta ai diritti fondamentali.
Il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, sottolinea con forza la necessità di un risveglio della società civile, un’azione concreta e coesa da parte di operatori penitenziari, associazioni di volontariato, familiari e, soprattutto, da parte dei detenuti stessi, considerati non come numeri o elementi di pericolo, ma come persone con storie, diritti e potenzialità.

L’attuale politica penitenziaria, definita con amara lucidità “malfunzionante”, è segnata da criticità strutturali, lacune nell’assistenza psicologica e sociale, carenza di personale qualificato e difficoltà di accesso a percorsi di formazione e riqualificazione.
Le promesse di riforma rimangono vane, soffocate dalla retorica e dall’assenza di azioni concrete.

È imperativo superare la logica del mero contenimento, abbracciando un modello basato sulla prevenzione del rischio suicidario, l’accompagnamento alla salute mentale, la promozione del dialogo e la creazione di un ambiente carcerario più umano e accogliente.

La dignità umana non può essere un optional, ma un diritto inviolabile, anche e soprattutto all’interno delle mura di una prigione.
Il silenzio e l’inerzia non sono più ammissibili; è tempo di agire, con determinazione e responsabilità, per evitare che altre vite siano spezzate in un sistema che troppo spesso si rivela un incubo senza fine.

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