Il volto celato dietro la maglia, il pianto liberatorio che spezza il silenzio, l’ammissione umiliante: “Non l’avevo mai subita”.
Un’esperienza di profonda ferita, impressa a fuoco nel palmares sportivo di Neymar, che trascende il semplice risultato di una partita.
L’8 luglio 2014, il Brasile, padrone di casa, crollò sotto il peso di una sconfitta umiliante: 1-7 contro la Germania, un trauma nazionale.
Ma per Neymar, costretto a guardare l’evento dalla tribuna a causa di un infortunio, il dolore si fonde con quello di un’altra, meno eclatante ma ugualmente devastante, debacle: la sonora sconfitta per 0-6 contro il Vasco da Gama, un evento che egli stesso definisce il giorno più buio della sua carriera.
Non si tratta solo di una questione di gol subiti o di una prestazione al di sotto delle aspettative.
La ferita è più profonda, intrisa di un senso di fallimento personale, di una frattura nella narrazione che lo aveva consacrato come idolo e simbolo del calcio brasiliano.
Il contesto amplifica la sofferenza: la pressione di rappresentare una nazione intera, l’aspettativa di trionfo, la consapevolezza di non poter, in quel momento cruciale, rispondere alla chiamata.
L’immagine di Neymar che abbandona il campo, protetto e consolato dal tecnico Diniz, un tempo Commissario Tecnico della Nazionale, e dall’amico-rivale Coutinho, autore di una doppietta nella partita, è emblematica della fragilità umana celata dietro la maschera del campione.
Quel gesto, più che un semplice atto di disperazione, è un grido di dolore condiviso, un riconoscimento della vulnerabilità di fronte a un destino avverso.
Le parole successive, la confessione esplicita di un’esperienza traumatica (“È una mer.
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e una vergogna – ho mai vissuto una cosa del genere in vita mia”), svelano la profondità della ferita.
Non si tratta solo di una sconfitta sportiva, ma di un attacco alla sua identità, alla sua autostima.
La partita contro il Vasco da Gama, e la successiva disfatta contro la Germania, diventano punti di riferimento dolorosi in un percorso di crescita che lo porterà a confrontarsi con le proprie debolezze e a ridefinire il significato del successo.
La vergogna non è solo per il risultato, ma per l’inadeguatezza percepita, per la sensazione di non essere stato all’altezza della sfida.
Un evento che, pur nel suo aspetto apparentemente minore rispetto a un Mondiale, ha lasciato un segno indelebile nella psiche del calciatore.