Questa mattina, l’aeroporto di Olbia è stato teatro di una vibrante espressione di dissenso, con un corteo di attivisti provenienti da diverse associazioni pro-Palestina e sostenitori dell’Anpi Gallura che hanno manifestato contro l’arrivo di un volo diretto da Tel Aviv.
L’evento, che segue una serie di proteste precedenti, si configura come un atto di resistenza simbolica contro un turismo percepito come veicolo di un’occupazione più ampia e di un’ideologia bellicista.
Gli striscioni sventolati, alternando i classici vessilli palestinesi e le bandiere arcobaleno – simbolo di pace e solidarietà – gridavano slogan come “Free, Free Palestine” e “A fora dae sa Sardinia” (Fuori dalla Sardegna), un appello diretto a negare accoglienza a chi viene percepito come portatore di un conflitto che affonda le sue radici in una storia complessa e dolorosa.
La partecipazione, variegata e proveniente da tutta l’isola e dalla penisola, testimonia la crescente sensibilità dell’opinione pubblica italiana nei confronti della questione palestinese.
La mobilitazione, pacifica ma determinata, si colloca in un contesto di crescenti tensioni e polemiche.
Le proteste precedenti avevano visto la contestazione di un lussuoso resort di Santa Teresa Gallura e un atto di simbolico vandalismo – l’imbrattamento con vernice rossa della roccia che costeggia la Costa Smeralda – gesti che riflettono una frustrazione profonda e un senso di impotenza di fronte a un conflitto percepito come ingiusto.
Le accuse mosse dai manifestanti sono pesanti: i turisti israeliani non sarebbero semplici visitatori, ma riservisti dell’esercito, e la Sardegna non deve diventare terra di conquista, un avamposto per interessi strategici incompatibili con i valori di pace e accoglienza.
La protesta non è solo un atto di opposizione a un’iniziativa turistica specifica, ma un tentativo di sollevare un dibattito più ampio sulla responsabilità collettiva nei confronti della crisi umanitaria in Palestina e sulla necessità di porre fine a quella che viene definita una “azione di genocidio”.
La risposta delle autorità, con un ingente dispiegamento di forze dell’ordine e polizia di Stato, ha generato ulteriori polemiche, in particolare per l’emissione di provvedimenti di foglio di via obbligatorio nei confronti di alcuni attivisti.
La legale Giulia Lai denuncia l’utilizzo improprio delle norme, sottolineando come i provvedimenti si basino unicamente sulla partecipazione alle manifestazioni e sull’esibizione della bandiera palestinese, senza alcuna contestazione di reati o evidenza di pericolosità sociale.
L’avvocata annuncia un ricorso legale, denunciando un tentativo di limitare la libertà di espressione e di sopprimere il dissenso.
L’episodio solleva interrogativi sulla proporzionalità delle misure repressive e sulla tutela dei diritti fondamentali di chi manifesta pacificamente in difesa di cause umanitarie.
La vicenda, lungi dall’essere una semplice controversia locale, si proietta nel più ampio dibattito internazionale sulla questione palestinese e sul diritto di protestare contro ingiustizie percepite.