Alla luce dell’assoluzione conseguita in sede giudiziaria, gli ex amministratori di Rende hanno indirizzato una missiva congiunta al Presidente della Repubblica e al Ministro dell’Interno, sollevando un interrogativo cruciale per il futuro della democrazia italiana: quali limiti debbono essere imposti all’esercizio del potere commissariale in presenza di accuse gravissime, ma poi rivelatesi infondate?Il provvedimento di scioglimento, atto che ha sospeso la legittima volontà popolare e interrotto la continuità amministrativa della comunità rendese, si è dimostrato, a seguito del verdetto assolutorio – emesso con la formula “il fatto non sussiste” – un errore di valutazione dalle conseguenze devastanti.
Non si tratta semplicemente di riabilitare gli individui coinvolti, quanto piuttosto di affrontare un problema sistemico che mina le fondamenta stesse del principio di legalità e della fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
L’operazione congiunta delle forze dell’ordine, sebbene animata da nobili intenzioni di contrasto alla criminalità organizzata, ha involto l’intera comunità in una spirale di incertezza e sospetto, travolgendo amministratori che hanno operato, come attestano i fatti, con dedizione e trasparenza.
L’utilizzo di misure straordinarie come lo scioglimento di un consiglio comunale, pur giustificato dalla necessità di tutelare la legalità, rischia di erodere il diritto fondamentale all’autodeterminazione di un territorio e di pregiudicare irrimediabilmente la sua immagine.
Il caso di Rende non può essere relegato a un episodio isolato.
Esso apre una riflessione più ampia sull’equilibrio tra prevenzione e giustizia, sulla necessità di garantire un contraddittorio pieno e sulla responsabilità dello Stato di correggere gli errori commessi, anche quando questi sono compiuti nell’interesse pubblico.
La tendenza, sempre più frequente, di ricorrere a strumenti repressivi rapidi e perentori, al di fuori dei tempi e delle garanzie del giusto processo, rischia di trasformare la giustizia in un’arma politica, distorcendo il suo ruolo di garante dei diritti e della libertà.
Il danno non è solo economico o reputazionale.
È soprattutto un danno alla fiducia.
Come possono i cittadini credere nelle istituzioni se queste, agendo in modo affrettato e con scarsa ponderazione, possono ledere irrimediabilmente il diritto all’autodeterminazione di un intero territorio? È imperativo che lo Stato dimostri di saper riconoscere la propria responsabilità, non solo condannando la criminalità organizzata, ma anche proteggendo la dignità di chi, pur operando nell’interesse della collettività, viene ingiustamente travolto da accuse infondate.
La solidità della Repubblica, l’osservanza della Costituzione, e, soprattutto, la ripresa della fiducia popolare, dipendono dalla capacità dello Stato di evolvere, di imparare dai propri errori, e di assicurare che ogni forma di rappresentanza democratica sia rispettata e difesa, senza preclusioni o recriminazioni.
Il caso di Rende è un monito: la giustizia deve essere rapida, ma soprattutto deve essere giusta, e il potere di scioglimento, quando esercitato, deve essere accompagnato da una profonda riflessione sulle sue conseguenze e da un’incrollabile attenzione al principio del contraddittorio.








