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Podcast su Riina: Scontro etico e accuse al giornalismo

L’eco di una conversazione online, diffusa attraverso un podcast, ha scosso la comunità giornalistica siciliana e riacceso un acceso dibattito sulla memoria, la responsabilità e i confini etici dell’informazione.
La discussione, che vedeva coinvolto il figlio di Totò Riina, ha suscitato la ferma condanna dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, che la definisce non un’intervista, ma piuttosto una vetrina, non qualificata, per l’apologia di un personaggio criminale, una profanazione della verità e un affronto alle vittime della mafia.
Il nodo centrale della questione non risiede unicamente nell’assenza di una qualifica professionale dei conduttori del podcast, ma soprattutto nel fatto che la conversazione ha permesso una rilettura distorta e apologetica della figura di Totò Riina, privando il racconto delle sue azioni criminali e delle sentenze definitive che le hanno sancite.
Questo silenzio assordante, questa omissione deliberata, costituisce una lesione nei confronti delle vittime, delle loro famiglie e, più in generale, di chi quotidianamente si dedica al giornalismo d’inchiesta, spesso a costo di enormi sacrifici personali e professionali.
La categoria giornalistica si trova a dover difendere non solo la propria reputazione, ma anche la stessa possibilità di raccontare la verità in un contesto sempre più contaminato da logiche di spettacolo e ricerca di audience a tutti i costi.
L’intervento della Presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo, ha sottolineato la disperata ricerca di visibilità che anima chi, come il figlio di Riina, cerca di riscrivere una storia che dovrebbe essere cancellata.
La sua presa di posizione, netta e incisiva, ribadisce che nessuna narrazione, per quanto elaborata, potrà mai trasformare i boss mafiosi in figure meritevoli di ammirazione.
È un richiamo alla responsabilità collettiva nel contrasto alla cultura di mafia, un monito a non concedere spazi a chi cerca di riabilitare il passato.

Il Presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha definito le dichiarazioni “gravissime e offensive”, non solo verso la memoria di Giovanni Falcone e delle vittime di mafia, ma anche nei confronti di tutti i siciliani che si impegnano quotidianamente per la legalità.
La sua affermazione, lapidaria, “Falcone è stato ucciso perché era il simbolo della lotta alla mafia, punto”, rappresenta un faro nella nebbia della disinformazione e un richiamo all’incongruenza di qualsiasi tentativo di revisionismo storico.

L’Ordine dei Giornalisti di Sicilia ha prontamente annunciato un’azione formale per verificare la sussistenza del reato di esercizio abusivo della professione, sottolineando la necessità di tutelare la credibilità del giornalismo e la dignità di chi lo pratica.
La vicenda pone un problema più ampio: la fragilità dei confini tra informazione, intrattenimento e apologia del crimine nell’era digitale, e l’urgente necessità di un dibattito etico e giuridico che definisca nuovi standard di responsabilità per chi produce e diffonde contenuti online.

La memoria delle vittime, la verità storica e la salvaguardia del valore del giornalismo richiedono un impegno costante e vigile.

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