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Moussa Sangare: Delitto per diletto? Il processo Verzeni infiamma la difesa.

Nella fredda aula di giustizia bergamasca, il processo a Moussa Sangare, accusato per la tragica scomparsa di Sharon Verzeni, si è aperto con una ricostruzione inquietante della dinamica e, soprattutto, delle motivazioni alla base dell’efferato crimine.
La testimonianza dello psichiatra di parte civile, Massimo Biza, ha tracciato un quadro clinico allarmante, definendo l’atto come un “delitto per diletto”, un atto compiuto non per necessità o passione, bensì per la mera soddisfazione di esercitare un potere distruttivo.

Un’azione volta a confermare, agli occhi del protagonista, la propria capacità di trascendere i limiti imposti dalla legge e dalla morale, un’ossessiva ricerca di emozioni estreme che sfociano in un atto di violenza gratuita.
La scelta di Sharon Verzeni non è apparsa casuale.

La prospettiva di Biza suggerisce un processo di selezione, una disamina fredda e calcolatrice che denota una lucidità disturbante, un’assenza di rimorso che amplifica la gravità del gesto.
La capacità di valutare e scartare potenziali vittime rivela un distacco emotivo profondo, una deumanizzazione progressiva che ha reso possibile l’esecuzione del crimine.
A contrastare questa interpretazione, lo psicologo e consulente della difesa, Alessandro Calvo, ha sollevato dubbi sulla piena responsabilità dell’imputato, invocando la possibile presenza di un disturbo della personalità che potrebbe aver compromesso la capacità di intendere e volere.

Una linea di difesa che si basa sull’attenuazione della colpevolezza, sostenendo che la patologia mentale potrebbe aver alterato la percezione della realtà e la capacità di comprendere la gravità delle proprie azioni.

Tuttavia, questa prospettiva ha trovato scarsa risonanza tra i periti della Procura, Sergio Monchieri in primis, che hanno giudicato superflui ulteriori accertamenti diagnostici.
La loro decisione suggerisce una valutazione, seppur preliminare, di lucidità e consapevolezza nell’imputato, rafforzando l’immagine di un individuo responsabile delle proprie azioni, sebbene forse affetto da disturbi psichiatrici.

Il processo si configura dunque come un complesso scontro di interpretazioni, un tentativo di comprendere le profondità di una mente capace di compiere un atto di tale barbarie, e di determinarne il grado di responsabilità in una società che cerca risposte e giustizia di fronte alla perdita di una giovane vita.
La questione cruciale rimane: fino a che punto un disturbo psichico può esonerare o attenuare la colpevolezza in un crimine di tale portata?

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