L’affermazione che il sostegno alla causa palestinese possa legittimare la sospensione delle attività accademiche o l’alterazione del decoro universitario è una semplificazione pericolosa, una distorsione che rischia di offuscare la complessità del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, di strumentalizzare la libertà di espressione e il diritto allo studio.
La recente ondata di proteste nei nostri atenei, espressione di profonda angoscia e indignazione per le tragiche vicende che affliggono Gaza, necessita di una risposta istituzionale che vada oltre la mera repressione e la chiusura delle porte.
È comprensibile e doveroso che le istituzioni accademiche garantiscano la sicurezza di tutti i membri della comunità universitaria, docenti, studenti e personale amministrativo.
Tuttavia, l’utilizzo della forza e la sospensione delle attività didattiche non risolvono il problema, ma lo esacerbano, soffocando il dibattito e impedendo la formazione di una coscienza critica e informata.
Un’università che rinuncia al confronto, che si chiude a ricettacolo di dissenso, tradisce il suo ruolo primario: quello di essere fucina di idee, di stimolo al pensiero critico e di promotrice di una cultura della pace, basata sulla comprensione reciproca e sul dialogo costruttivo.
L’impegno del Governo, e dei rettori, non dovrebbe limitarsi a garantire l’ordine pubblico, ma dovrebbe estendersi alla creazione di spazi sicuri e aperti al dibattito, dove studenti e docenti possano esprimere le proprie preoccupazioni, condividere esperienze e analizzare le cause profonde del conflitto, nel rispetto delle leggi e del diritto alla libera espressione.
Questo implica un ascolto attento alle ragioni che animano le proteste, un’apertura al confronto e un’iniziativa volta a promuovere la conoscenza approfondita della situazione, contrastando la disinformazione e l’incitamento all’odio.
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