Maria Pia Montemitro, 34 anni, si trova di fronte a una disperazione che la spinge a una drammatica protesta: uno sciopero della fame, atto di supplica rivolto al consolato italiano a Gerusalemme.
Il suo appello è semplice, ma gravido di implicazioni umanitarie e giuridiche: sollecitare il rilascio del visto per motivi familiari al suo giovane marito, palestinese di 25 anni, attualmente intrappolato nella Striscia di Gaza.
La sua identità è protetta, preservata nel rispetto della sua vulnerabilità e della complessità geopolitica che lo circonda.
La storia d’amore, nata in un contesto virtuale attraverso gruppi di discussione online dedicati alla spiritualità islamica, si è concretizzata in un matrimonio per procura, celebrato con solennità nella moschea di Bari l’8 maggio.
Un legame profondo, tessuto di fede e speranza, ora ostacolato da un sistema burocratico che sembra sordo alle urgenze umane.
La situazione del marito di Maria Pia trascende la semplice difficoltà amministrativa.
La distruzione causata dai bombardamenti ha cancellato la sua abitazione, riducendolo a vivere in una tenda precaria, segnata da falle e privazioni.
Si trova a condividere questa esistenza fragile con i resti della sua famiglia, composta interamente da minori, esposti alle conseguenze devastanti del conflitto.
La preoccupazione di Maria Pia è costante: verificare il suo sostentamento, la sua idratazione, la sua incolumità, nella paura che il suo nome possa finire ineluttabilmente nelle liste dei caduti.
La vicenda assume una dimensione giuridica rilevante grazie all’intervento del Tribunale di Roma, sezione 18, che il 12 agosto ha emesso un ordine esplicito a favore del rilascio del visto.
L’avvocata Marina Angiuli, dell’Asgi (associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), sottolinea l’importanza di questa sentenza, che dovrebbe accelerare il processo.
Tuttavia, l’iter burocratico si trascina, alimentando l’angoscia di Maria Pia e la sua determinazione a portare avanti la protesta.
Lo sciopero della fame non è solo un gesto di disperazione, ma un atto di resistenza, un richiamo alla responsabilità umana e alla necessità di superare le barriere ideologiche e politiche che impediscono la riunione familiare.
Una volta giunto in Italia, il matrimonio sarà ufficializzato presso il comune di San Severo, confermando la sua validità legale e sancendo la speranza di un futuro condiviso, lontano dalle macerie e dalla sofferenza.
La vicenda pone interrogativi urgenti sulla gestione dei flussi migratori, sulla tutela dei diritti umani in contesti di conflitto e sulla capacità di un sistema burocratico di rispondere alle esigenze concrete di persone in difficoltà.