La condanna a tre anni di reclusione inflitta in appello per la violenza sessuale subita da una diciassettenne a Macerata rappresenta un passo avanti, accolto positivamente dagli operatori dei centri antiviolenza e delle case rifugio delle Marche.
Tuttavia, questa decisione non può cancellare l’ombra sinistra proiettata dalle motivazioni della sentenza di primo grado, giudicate un esempio gravissimo di vittimizzazione secondaria istituzionale, un cortocircuito nella comprensione della giustizia.
La decisione originaria del tribunale di Macerata, che aveva assolto l’imputato, si era appoggiata a un ragionamento distorto: l’aver avuto precedenti relazioni sessuali avrebbe dovuto, a suo dire, predisporre la giovane a prevedere lo sviluppo degli eventi.
Tale approccio, oggi ribaltato dalla Corte d’appello che ha riconosciuto la natura violenta dell’atto, si configura come un’applicazione fallace del diritto, una perversione del principio di giustizia che dovrebbe tutelare le vittime.
Le realtà marchigiane del settore, in un comunicato congiunto, esortano a non relegare l’episodio a una mera questione giudiziaria.
L’orrore delle motivazioni di primo grado persiste come una ferita aperta, un campanello d’allarme che rivela una profonda crisi culturale all’interno del sistema giuridico italiano.
Si tratta di una crisi che affonda le sue radici in una visione distorta del consenso, una visione che, troppo spesso, tende a scaricare la responsabilità sulle vittime, anziché sui perpetratori.
Le operatrici dei centri antiviolenza denunciano con forza queste argomentazioni come un manifesto della cultura dello stupro, un sintomo di una mentalità patriarcale profondamente radicata.
Questa mentalità, insidiosa e pervasiva, si manifesta con la tendenza a giudicare la libertà sessuale femminile, a sanzionare l’esercizio di un diritto fondamentale, anziché a perseguire il reato commesso.
Il comunicato richiama con forza la Convenzione di Istanbul, un pilastro nella lotta contro la violenza di genere, che vieta esplicitamente l’utilizzo della storia sessuale della vittima come elemento per screditare la sua credibilità.
Questa pratica, inaccettabile e dannosa, contribuisce a silenziare le vittime, a dissuaderle dal denunciare e a perpetuare un clima di paura e impunità.
Per scongiurare il ripetersi di episodi simili, le associazioni chiedono un intervento urgente e strutturale.
Si rende imprescindibile una formazione specialistica obbligatoria, rivolta a tutti i magistrati, gli operatori del diritto e il personale delle forze dell’ordine, incentrata sulla violenza di genere, sull’analisi degli stereotipi di genere e sulla corretta applicazione delle convenzioni internazionali.
Non si tratta solo di impartire nozioni teoriche, ma di promuovere una profonda riflessione critica sui pregiudizi che ancora permeano il sistema giudiziario e di sviluppare competenze specifiche per l’analisi dei casi di violenza di genere, con un approccio empatico e orientato alla tutela delle vittime.
Solo attraverso un cambiamento culturale profondo e una maggiore consapevolezza si potrà garantire una giustizia equa e protettiva per tutte le donne.