La recente sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, che ha assolto un imputato gambiano per incapacità di intendere e di volere durante l’aggressione a agenti di polizia e personale medico a San Benedetto del Tronto, ha scatenato un’ondata di reazioni, spesso veementi, da parte di esponenti politici e rappresentanti sindacali.
Queste reazioni, pur comprensibili nel contesto di un evento che coinvolge figure istituzionali e solleva questioni delicate, necessitano di un’analisi più approfondita, superando semplificazioni e potenziali distorsioni.
Il procuratore della Repubblica di Ascoli Piceno, Umberto Monti, ha sentito l’esigenza di intervenire per chiarire alcuni aspetti cruciali, contrastando affermazioni che rischiano di alimentare un clima di contrapposizione e di pregiudizio.
Le accuse mosse, incentrate su presunte delegittimazioni delle forze dell’ordine e un’erosione della credibilità dello Stato, richiedono una riflessione più sfumata.
La decisione del Tribunale, basata sulla valutazione della perizia psichiatrica, non inficia l’operato delle forze dell’ordine.
Anzi, sottolinea l’importanza cruciale, e a volte trascurata, della valutazione delle condizioni psicologiche e cognitive degli individui coinvolti in contesti di violenza.
Il concetto di “incapacità di intendere e di volere”, benché complesso, si pone come elemento fondamentale per stabilire la responsabilità penale, distinguendo tra azioni compiute in piena coscienza e quelle derivanti da condizioni psichiatriche preesistenti o scatenate da eventi traumatici.
La discussione pubblica, spesso polarizzata, tende a ridurre la questione a una dicotomia semplicistica: o si condanna sempre e comunque, o si giustifica l’azione violenta.
Tale approccio ignora la complessità del caso specifico e, soprattutto, le implicazioni etiche e giuridiche che derivano dalla condanna di un individuo privo della piena capacità di comprendere le proprie azioni.
È fondamentale riconoscere che la sentenza non rappresenta una condanna generalizzata delle forze dell’ordine, né una minaccia alla coesione sociale.
Piuttosto, si tratta di un monito a procedere con cautela nell’interpretazione degli eventi, tenendo conto di tutte le variabili in gioco e promuovendo una cultura della comprensione e dell’empatia, anche verso coloro che si trovano in condizioni di vulnerabilità.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di comprendere le cause profonde della violenza, piuttosto che limitarsi a stigmatizzare e ad alimentare una spirale di risentimento e di divisione.
La giustizia, in questo senso, non è solo punizione, ma anche ricerca di verità e di giustizia sostanziale.







