La crescente pressione per la legalizzazione del suicidio assistito in Italia richiede una riflessione profonda e urgente, al di là delle narrazioni semplicistiche e strumentali che spesso offuscano il dibattito.
Don Aldo Buonaiuto, figura di riferimento nella Comunità Papa Giovanni XXIII e testimone diretto delle sofferenze più profonde, lancia un appello ai legislatori, non come atto di ostilità, ma come espressione di una visione etica che pone al centro la dignità umana e la sacralità della vita.
L’attuale clima, influenzato da interpretazioni selettive delle sentenze costituzionali, rischia di trasformare una questione complessa in una mera questione di “diritto individuale”, ignorando le implicazioni sociali, economiche e, soprattutto, morali che una simile legalizzazione comporterebbe.
Dietro la facciata della “compassione” e della “libera scelta”, si celano, come giustamente sottolineato, dinamiche economiche preoccupanti: la tentazione, perverso, di ridurre i costi sociali legati all’assistenza e all’accudimento dei più vulnerabili.
La Comunità Papa Giovanni XXIII, erede spirituale del Servo di Dio Don Oreste Benzi, ha incarnato per decenni un modello alternativo: un’accoglienza incondizionata, un amore concreto rivolto a persone con disabilità gravissime, in stato vegetativo persistente, affette da patologie complesse.
Un’accoglienza che non ha visto un fardello da alleggerire, ma un’opportunità per manifestare la cura e la solidarietà, valori fondanti della nostra civiltà.
La percezione di un’Italia sempre più intollerante verso le radici giudaico-cristiane, un’Italia che reagisce negativamente quando un leader politico richiama i valori che hanno plasmato la nostra identità, offre un quadro desolante.
Ma l’opposizione a una legge sull’eutanasia, una voce di dissenso proveniente dal mondo cattolico, è interpretata come un’intollerabile provocazione.
Questa reazione riflette un disagio più profondo: la paura di confrontarsi con la fragilità umana, la difficoltà di accettare la sofferenza come parte integrante dell’esistenza.
L’Anno Santo dedicato alla Speranza, paradossalmente, si rivela un momento in cui si coltiva la cultura della morte.
Invece di coltivare la speranza nel futuro, si alimenta il desiderio di anticipare la fine.
È necessario riscoprire il valore dell’assistenza palliativa, investire in risorse umane qualificate, garantire un sostegno economico adeguato alle famiglie che si prendono cura dei propri cari.
È necessario, soprattutto, promuovere una cultura della solidarietà e della cura, che ponga al centro la persona nella sua interezza, non come un costo da eliminare, ma come un essere umano degno di amore e di rispetto fino alla fine del suo cammino.
La vera compassione non è facilitare la morte, ma accompagnare la vita con amore e dedizione.