Le recenti controversie che hanno investito alcune delle imprese alpinistiche di Marco Confortola, più che riflettere disomogeneità nelle metodologie o problemi oggettivi di sicurezza, sembrano manifestare una radicata tendenza alla critica sterile, un “mal di pancia” collettivo che offusca la possibilità di celebrare l’eccellenza e il valore umano dell’alpinismo.
L’atleta, in un’intervista a *Lo Scarpone*, ha espresso il suo disappunto per la prevalenza di polemiche, sottolineando come queste distolgano l’attenzione da aspetti cruciali e positivi del mondo dell’alpinismo e del suo impatto sociale.
Il contesto è quello di una crescente complessità, dove la performance sportiva si interseca con la responsabilità sociale e la comunicazione mediatica.
L’alpinismo contemporaneo non è più solamente una sfida individuale contro la montagna, ma un’attività che coinvolge team, guide, supporto logistico, e che genera un interesse globale mediatico.
Questo, inevitabilmente, espone gli atleti a scrutinio e giudizi, spesso semplificati e privi di una comprensione approfondita delle dinamiche in gioco.
Confortola ha citato esempi concreti, come le polemiche sull’Annapurna, dove le sue dichiarazioni si contrappongono a quelle di Silvio Mondinelli, evidenziando la difficoltà di ricostruire con precisione la sequenza degli eventi in ambienti così estremi e sfuggenti.
Ha poi affrontato il tema di un edema corneale durante l’ascensione al Kangchenjunga, indicando un malfunzionamento del sistema di monitoraggio, un dettaglio apparentemente minore che rivela la fragilità della tecnologia in condizioni estreme e la necessità di giudicare la performance umana in relazione alle variabili incontrollabili.
Il caso del Nanga Parbat, con le continue contestazioni sulla vetta raggiunta, rappresenta l’apice di questa tendenza alla critica incessante.
La presenza di un certificato di vetta, elemento documentale incontrovertibile, non sembra placare le voci discordanti, alimentando un clima di sospetto e diffidenza.
Questo fenomeno, più ampio dell’ambito alpinistico, riflette una crescente diffidenza verso le figure di riferimento e una ricerca ossessiva di errori e incongruenze.
L’appello di Confortola non è solo un lamento personale, ma un invito a un cambio di prospettiva.
Si tratta di riconoscere il valore dell’impegno, della preparazione, del coraggio e della resilienza che si celano dietro ogni impresa alpinistica, di celebrare i successi e di offrire supporto in caso di difficoltà.
Non meno importante è la necessità di valorizzare l’impatto positivo dell’alpinismo nelle comunità locali, come dimostra l’iniziativa di soccorso al Dhaulagiri, un esempio di solidarietà e umanità che dovrebbe essere al centro dell’attenzione, piuttosto che offuscato da polemiche superficiali.
La montagna, in definitiva, dovrebbe essere un terreno di confronto costruttivo e di crescita collettiva, non un campo di battaglia ideologica.