La crisi dell’Ilva trascende una semplice difficoltà industriale, configurandosi come una profonda frattura tra potenziale economico e realtà operativa.
L’assenza di offerte concrete durante l’ultima asta, come evidenziato dal presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, non è un mero dato di fatto, ma il sintomo di una percezione diffusa: quella di un complesso produttivo percepito come inaccessibile e gravato da ostacoli insormontabili.
La situazione attuale non consente un investimento sostenibile.
Pretendere che operatori, sia nazionali che internazionali, si assumano la responsabilità di un’azienda con impianti vincolati da provvedimenti giudiziari pluriennali appare un’incongruenza logica.
L’incertezza normativa e la mancanza di una visione condivisa a livello territoriale – dove le amministrazioni locali si trovano a dover ridefinire il ruolo di un’industria siderurgica nel tessuto socio-economico – generano un clima di sfiducia che scoraggia qualsiasi iniziativa di rilancio.
Il break-even point, stimato in sei milioni di tonnellate, rappresenta un obiettivo lontano dalla produzione attuale di 1,6 milioni di tonnellate.
Le perdite mensili, quantificate in 80/100 milioni, sono un peso insopportabile che rende l’operazione finanziariamente insostenibile per qualsiasi investitore privato.
L’impegno richiesto per ristrutturare l’azienda e modernizzare gli impianti, sommandosi alle perdite operative, eleva la barriera d’ingresso a livelli proibitivi.
Nonostante queste difficoltà, l’importanza strategica della produzione di prodotti piani per l’Italia rimane un dato inequivocabile.
La capacità di garantire l’approvvigionamento interno di acciaio, essenziale per settori chiave come la meccanica, l’automotive e le costruzioni, rappresenta un asset nazionale cruciale.
Tuttavia, la modernizzazione dell’industria siderurgica italiana implica inevitabilmente una revisione del modello occupazionale.
Per raggiungere livelli di produzione ottimali, necessari per competere sui mercati globali, si renderà indispensabile una riduzione del personale, presumibilmente da 10.000 unità attuali a un numero inferiore, in linea con le esigenze di un’azienda efficiente e tecnologicamente avanzata.
Il nodo cruciale, pertanto, risiede nella creazione di un quadro di condizioni “abilitanti”, come sottolineato da Gozzi.
Questo implica un impegno congiunto da parte di governo, enti locali, sindacati e potenziali investitori, finalizzato a risolvere le problematiche legali, a garantire la certezza del diritto, a definire un piano di bonifica ambientale condiviso e, soprattutto, a trovare soluzioni sostenibili per la gestione degli esuberi, evitando che il peso di queste responsabilità ricada esclusivamente sulle spalle del nuovo gestore.
Un approccio sistemico e collaborativo è l’unica via per liberare il potenziale inespresso dell’Ilva e restituire all’Italia una filiera siderurgica competitiva e resiliente.






