La questione sollevata dalle cosiddette “Diffide Culla”, elaborate dall’avvocata Camilla Signorini e inviate a diverse strutture ospedaliere italiane, incarna un acceso dibattito sui diritti riproduttivi e la tutela della salute del neonato, mettendo a confronto l’autonomia genitoriale e le prassi mediche consolidate.
Le diffide, che prevedono azioni legali fino a 100.000 euro per violazioni, mirano a garantire un consenso informato esplicito per procedure mediche che riguardano la madre in gravidanza e il neonato, inclusi l’uso della mascherina, la raccolta di campioni biologici (sangue, DNA) e la somministrazione di vaccini o tamponi.
L’iniziativa, pur suscitando reazioni contrastanti, risponde a una crescente preoccupazione per l’erosione dei diritti genitoriali in ambito sanitario.
La centralità del consenso, principio cardine del diritto alla salute, viene qui riaffermata in un contesto in cui le decisioni mediche che coinvolgono il neonato sono spesso prese in un delicato equilibrio tra necessità terapeutiche e volontà dei genitori.
La denuncia presentata dalla Società Italiana di Neonatologia contro l’avvocata Signorini, e l’apertura di indagini in diverse procure, riflette la complessità della situazione.
Le accuse, che spaziano dall’esercizio abusivo di una professione alla diffusione di notizie tendenziose e al procurato allarme, evidenziano le zone d’ombra in questa controversia.
La Società, infatti, contesta la presunta distorsione della realtà ospedaliera presentata nelle diffide e il potenziale impatto negativo sulla corretta applicazione delle procedure mediche.
L’episodio sottolinea un più ampio fenomeno: la crescente consapevolezza, da parte delle coppie, del proprio diritto a partecipare attivamente alle decisioni relative alla salute dei propri figli.
La diffida, in questo senso, può essere interpretata come un tentativo di esercitare un controllo più rigoroso sulle pratiche mediche, richiedendo una maggiore trasparenza e un dialogo più aperto tra medici e genitori.
Tuttavia, è fondamentale considerare le implicazioni pratiche di un’applicazione troppo rigida di tali diffide.
L’obbligo di ottenere un consenso esplicito per ogni procedura, anche le più routinarie, potrebbe rallentare i processi decisionali in situazioni di emergenza o compromettere l’efficacia delle cure.
Inoltre, la diffusione di informazioni inaccurate o fuorvianti, come suggerito dai denuncianti, può generare confusione e allarme tra i genitori, minando la fiducia nel sistema sanitario.
La vicenda delle Diffide Culla non è quindi semplicemente una disputa legale, ma un campanello d’allarme che invita a riflettere sull’equilibrio tra autonomia genitoriale, responsabilità medica e tutela della salute del neonato, promuovendo un approccio più centrato sulla persona e basato su un consenso informato e condiviso.