Firenze, primi anni ’80: una città che si risveglia nel buio, liberando un’energia creativa inesplorata, ben oltre i confini della musica.
Non si tratta solo di band come i Litfiba, i Diaframma, i Neon o i Cafè Caracas, ma di un’onda culturale più ampia che investe la città, generando un ecosistema di espressione artistica.
Luoghi come il Banana Moon, il Plegine, la Rokkoteca Brighton a Settignano o il Manila a Campi Bisenzio diventano epicentri di questa trasformazione, crocevia di sperimentazione sonora, visiva e performativa.
Il documentario “Uscivamo molto la notte”, firmato da Stefano Pistolini e Bruno Casini, si propone di catturare l’essenza di questa stagione feconda, ricostruendola attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti.
Un’immersione sensoriale in un periodo di transizione, in cui Firenze abbandona la patina di città d’arte conservatrice per abbracciare l’effervescenza di una nuova generazione.
Il passaggio di testimone tra gli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo segna una cesura culturale profonda.
La Firenze del turismo contemplativo si dissolve in un laboratorio pulsante di nuove identità giovanili, un terreno fertile per fenomeni che avrebbero definito un vero e proprio “Rinascimento Rock”, un’esplosione di arte che trascende i generi e le convenzioni.
Il film non si limita a presentare immagini e suoni, ma vuole evocare un’atmosfera, stimolare riflessioni, restituire l’intensità di un’esperienza condivisa, seppur fugace.
Mentre Piero Pelù colloca la fine di quell’epoca attorno al 1982-83, Bruno Casini estende il respiro di questa vitalità artistica fino alla fine degli anni ’80, indicando una persistenza e una metamorfosi più complesse.
Ma quali sono le cicatrici e le eredità di questa stagione? “Uscivamo molto la notte” si apre con la presenza degli Spleen, una giovane band contemporanea che suona in una cantina, quasi un’eco di speranza e continuità.
Tuttavia, la difficoltà nel reperire spazi dedicati alla musica, un problema concreto che affligge la scena artistica odierna, emerge come un amaro contrappunto.
Il Viper Theater, distrutto da un incendio, la Flog, vittima della pandemia, il Glue, aperto solo sporadicamente, rivelano un vuoto che risuona con la scomparsa di un patrimonio culturale.
Bruno Casini, in occasione della proiezione, esprime un commento velato di malinconia, sottolineando la fragilità di un ecosistema artistico che faticosamente cerca di sopravvivere.
Il documentario, dunque, non è solo una celebrazione del passato, ma anche un appello a preservare e coltivare la creatività contemporanea, a riconoscere il valore degli spazi di espressione artistica, a non disperdere un’eredità preziosa che continua a ispirare le nuove generazioni.







