Un’ombra di autocensura, palpabile e inquietante, si è insinuata nel tessuto culturale italiano, manifestandosi in un episodio emblematico che solleva interrogativi profondi sulla libertà di espressione e sul ruolo dello Stato.
La pubblicazione del libro “Io non voto Giorgia” di Giovanna Musilli, un’analisi critica del governo in carica, si è scontrata con un tentativo di ostracismo che ha coinvolto, stando alle dichiarazioni dell’autrice, anche figure istituzionali.
L’editrice Laura Pacelli ha ricevuto un’inconsueta sollecitazione, una telefonata che le chiedeva di rimuovere il volume dallo stand della fiera “Più Libri Più Liberi”, un evento dedicato alla promozione di piccole e medie case editrici e di opere che spesso faticano a trovare spazio nei canali tradizionali.
L’episodio, già verificatosi in precedenza alla fiera del libro di Torino, dove la presentazione era stata bruscamente interrotta da una comunicazione telefonica, suggerisce un disegno più ampio di controllo culturale.
L’autrice, Giovanna Musilli, si interroga sull’origine di queste pressioni, oscillando tra l’ipotesi di un ordine dall’alto e quella di un’iniziativa personale, seppur eccessivamente zelante, di un funzionario.
L’incidente si configura come una symptom di un clima culturale sempre più intollerante verso le voci dissenzienti, un ambiente in cui l’esercizio della critica politica è percepito come un atto di lesa maestà.
L’accusa è grave: una deriva autoritaria che non si limita a imporre modelli di famiglia, a dettare credenze religiose, ma si estende al controllo sui contenuti culturali.
La concentrazione dei media nelle mani di pochi soggetti, spesso vicini al potere, aggrava la situazione, creando un ecosistema informativo distorto, privo di pluralismo e di spazio per le opinioni minoritarie.
L’allarmante prospettiva di estendere questo controllo anche a istituzioni pilastro della democrazia come le università e la magistratura, evoca scenari che ricordano l’esperienza ungherese, un monito severo per l’Italia.
La risposta formale della Regione Lazio, che si dichiara impegnata in un’indagine approfondita e attribuisce l’episodio a un’iniziativa personale, suona come un tentativo di minimizzare la gravità della situazione.
Tuttavia, l’ombra del dubbio permane, alimentando la preoccupazione per un progressivo restringimento degli spazi di libertà e di dibattito pubblico.
Questo episodio non è un caso isolato, ma un campanello d’allarme che richiede una riflessione seria e un impegno concreto per difendere i valori fondanti della nostra Costituzione.
Il diritto di esprimere opinioni, anche critiche, non è un privilegio, ma un dovere civico, un elemento imprescindibile per il corretto funzionamento di una democrazia.






