L’industria della moda italiana, pilastro dell’economia nazionale e portatrice di un patrimonio culturale inestimabile, si trova ad affrontare una sfida esistenziale: l’ondata incontrollata dell’ultra fast fashion, un fenomeno che ne mina la competitività e ne compromette la sostenibilità.
La situazione, così delineata dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, richiede un’azione decisa e coordinata a livello europeo.
Il contesto economico attuale, caratterizzato da un recupero del potere d’acquisto dei consumatori italiani e da un’inflazione finalmente in linea con le medie europee, offre un segnale positivo, ma non sufficiente a contrastare la pressione esercitata dall’ultra fast fashion. Questo fenomeno, di recente e di dimensioni globali, rappresenta una diretta conseguenza delle politiche commerciali statunitensi, in particolare delle tariffe imposte ai prodotti provenienti da Cina e Vietnam.
Queste misure, seppur mirate a proteggere il mercato americano, hanno generato un effetto domino, spingendo una sovrabbondanza di produzione cinese verso il mercato europeo, configurandosi quasi come un’invasione commerciale.
La Commissione Europea, secondo Urso, dovrebbe quindi emulare l’efficacia delle misure precedentemente adottate nel settore siderurgico, introducendo dazi protettivi e limitazioni alle importazioni.
L’esperienza con l’acciaio, che ha visto l’imposizione di aumenti tariffari del 50% nei confronti della Cina e una significativa riduzione delle quote, dimostra la possibilità di intervenire con strumenti tariffari per tutelare settori strategici.
Estendere questo approccio al comparto tessile e della moda sarebbe un passo cruciale per preservare la filiera italiana e proteggere i posti di lavoro.
Parallelamente, è imperativo affrontare il ruolo delle piattaforme digitali, spesso catalizzatrici di questa ondata di prodotti a basso costo, etichettati in modo ingannevole come “Made in Italy”.
Milioni di cittadini europei si trovano a ricevere a domicilio prodotti di fabbricazione cinese, realizzati in condizioni spesso precarie e in violazione delle normative ambientali e del lavoro.
L’emendamento attualmente in discussione al Senato italiano mira a regolamentare queste piattaforme, ma è fondamentale che la Commissione Europea adotti misure di salvaguardia a livello comunitario, per evitare che il problema si protragga e si estenda ad altri paesi europei.
L’intervento europeo non deve limitarsi all’introduzione di dazi e alla regolamentazione delle piattaforme digitali.
È necessario promuovere una cultura del consumo più consapevole, che valorizzi la qualità, la sostenibilità e la trasparenza.
L’etichettatura chiara e accurata dei prodotti, la tracciabilità della filiera produttiva e la promozione del Made in Italy autentico sono elementi chiave per contrastare la concorrenza sleale e rafforzare la resilienza dell’industria italiana.
In definitiva, la tutela del patrimonio manifatturiero italiano non è solo una questione economica, ma anche una questione di identità culturale e di responsabilità sociale.