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Napoli: Memorie, Sogni e l’Impossibile da Raccontare

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L’eco di un’infanzia napoletana si disvela in “Napoli, mio immenso caleidoscopio”, uno spettacolo che trascende il racconto biografico per divenire una riflessione profonda sull’identità, la memoria e l’atto stesso di rappresentare.

Moscato, attraverso la forza interpretativa di Musella, non offre un’autobiografia lineare, bensì un labirinto di immagini, sensazioni e frammenti di ricordi che si scontrano e si compenetrano, creando un mosaico complesso e suggestivo.
La scena, architettonicamente divisa tra la monumentalità di una statua di Sant’Antonio, simbolo di protezione e autorità, e la vivace pulsazione delle vetrine di una Standa, epicentro di desideri e consumi, incapsula la dualità dell’esperienza infantile napoletana.

L’episodio del dono ricevuto nella Standa, apparentemente banale, si rivela un catalizzatore che mette in discussione il rapporto del narratore con il proprio io, con un’ombra di consapevolezza narcisistica che emerge come elemento chiave dell’indagine.

Lo spettacolo si muove tra l’angoscia infantile evocata dalla maschera di Pulcinella, simbolo di un inganno sociale ed esistenziale, e la commozione per la scomparsa delle signorine Musciacca, figure emblematiche di un’epoca passata, fino a raggiungere il ricordo metafisico della neve a Napoli, evento eccezionale che altera la percezione della realtà e apre a una dimensione onirica.
La memoria, manipolata e rielaborata attraverso la lente dell’arte teatrale e della scrittura di Moscato, si libera dai vincoli del realismo per abbracciare l’astrazione e l’esplorazione del subconscio.
Il linguaggio, un napoletano vibrante, intriso di tradizione ma costantemente reinventato, si fa strumento di una ricerca estetica e antropologica che svela le profondità dell’animo umano.

Andò, con la sua regia sapiente, ha saputo tradurre in linguaggio scenico la complessità del testo di Moscato, creando un’esperienza teatrale che sfida lo spettatore a lasciarsi andare all’emozione e all’intuizione, piuttosto che alla logica e alla razionalità.

Il dialogo tra il testo e l’immagine, la musica di Pasquale Scialò e le canzoni originali di Moscato, il ballo struggente interpretato dagli attori, contribuiscono a creare un’atmosfera di sospensione e mistero che avvolge lo spettatore.

Il vero fulcro dello spettacolo risiede nell’affermazione “non si può narrare la mia vita”, che rivela la natura paradossale dell’atto di rappresentazione.
La vita, nella sua essenza, sfugge alla definizione e alla narrazione, e l’arte può solo avvicinarsi a essa attraverso la sua assenza, attraverso la sua frammentazione.
Il teatro, quindi, non è un mezzo per comunicare un messaggio, ma un luogo di esplorazione, un territorio in cui il significato si disperde e si ricompone continuamente.
L’impegno degli attori, alcuni legati a Moscato da una lunga amicizia artistica, si manifesta in una performance intensa e coinvolgente, che restituisce la sua fragilità e la sua forza, le sue gioie e i suoi dolori.
Il teatro, in definitiva, non è un ufficio postale che consegna pacchi, ma un santuario dell’impossibile, un luogo in cui la poesia e il dolore si fondono in un’unica, commovente, esperienza.

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