Per promuovere una coesistenza pacifica tra l’uomo e l’orso bruno marsicano, una popolazione fragile e a rischio estinzione, è fondamentale ripensare la gestione del suo habitat e le sue risorse alimentari.
La proposta avanzata da Corradino Guacci, presidente della Società Italiana per la Storia della Fauna ‘Giuseppe Altobello’, indirizzata al Ministero dell’Ambiente e ad altre istituzioni, si basa su un modello di intervento proattivo e sostenibile, ispirato alle pratiche virtuose adottate in Slovenia.
L’approccio suggerito non si limita alla semplice mitigazione dei conflitti, ma mira a rafforzare la resilienza della popolazione di orsi attraverso un incremento mirato della sua potenziale risorsa trofica.
Questo implica la creazione di fasce di vegetazione diversificate, con essenze fruttifere arboree e arbustive, strategicamente posizionate lungo i corridoi ecologici che collegano le aree protette.
Un’azione di questo tipo non solo arricchirebbe la dieta dell’orso, ma ne favorirebbe anche la riproduzione, un fattore cruciale per il recupero demografico della specie.
L’alternativa, come sottolinea Guacci, è lasciare che l’orso si affidi all’autoconsumo, depredando rifiuti antropici ad alto contenuto calorico.
Uno scenario che non solo degrada l’immagine dell’animale, privandolo della sua dignità, ma riflette anche una carenza nella gestione del territorio e nella responsabilità della comunità che dovrebbe tutelarlo.
L’incremento controllato e temporaneo delle risorse alimentari, secondo la proposta, genererebbe un effetto a catena positivo: un aumento della popolazione di orsi, che a sua volta ne faciliterebbe la dispersione in aree vocate come il Parco Nazionale del Matese.
Questo processo di espansione geografica è essenziale per contrastare la filopatrialismo, una tendenza che limita la capacità degli orsi di colonizzare nuovi territori.
L’aumento del numero di femmine è particolarmente importante, poiché permetterebbe di implementare strategie di traslocazione più efficaci.
Il trasferimento mirato di femmine lungo le rotte di dispersione dei maschi favorirebbe la colonizzazione di nuove aree, un meccanismo biologico imprescindibile per la sopravvivenza a lungo termine della popolazione appenninica.
La maggiore disponibilità numerica consentirebbe di affrontare queste operazioni con maggiore sicurezza e pianificazione, riducendo il rischio di impatti negativi sugli animali e sull’ambiente.
L’intervento proposto, quindi, non è un semplice palliativo, ma un investimento strategico per il futuro della fauna selvatica appenninica, un tassello fondamentale per la conservazione di un patrimonio naturale di inestimabile valore.






