La scomparsa di Richard Cheney, figura controversa e imprescindibile nel panorama politico americano, segna la conclusione di un capitolo denso di decisioni strategiche, scelte di guerra e un’influenza che si estende ben oltre i confini del suo ruolo di Vicepresidente sotto l’amministrazione Bush.
A 84 anni, la sua morte, dovuta a una polmonite aggravata da una storia di complicanze cardiache, suggella un percorso irto di sfide fisiche e politiche, testimonianza di una resilienza che ha caratterizzato la sua intera esistenza.
Cheney non fu semplicemente un Vicepresidente; fu un architetto silenzioso, un demiurgo delle politiche estere che hanno plasmato l’America del XXI secolo.
La sua eredità è indissolubilmente legata alla guerra del Golfo del 1991, dove il suo ruolo di Segretario alla Difesa fu cruciale nella pianificazione e nell’esecuzione dell’operazione Desert Storm, una campagna militare che ridisegnò gli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
Tuttavia, è con l’amministrazione Bush che la sua influenza raggiunse l’apice.
Cheney incarnò un approccio realista e assertivo alla politica estera, un ritorno a una visione del mondo che enfatizzava la forza militare e la deterrenza come strumenti fondamentali per proteggere gli interessi nazionali americani.
La sua visione, a volte definita “neoconservatrice”, si tradusse in un’agenda di sicurezza nazionale improntata alla proattività, che culminò nell’invasione dell’Iraq nel 2003, un evento che rimane al centro di un acceso dibattito storico e morale.
La sua figura, spesso paragonata a quella del “Darth Vader” della politica americana, non era priva di critiche.
L’accusa di aver esercitato un’influenza eccessiva sull’amministrazione Bush, con decisioni prese in segreto e con una limitata trasparenza, gli è costantemente pesata.
La sua difesa energica del ricorso alla tortura come strumento di interrogatorio dei sospettati terroristi, in particolare nei cosiddetti “black sites”, rimane una questione profondamente controversa e oggetto di indagini.
Al di là delle controversie, la cronaca delle sue battaglie contro il tempo, attraverso i cinque infarti che lo afflissero tra il 1978 e il 2010, il quadruplo bypass del 2001 e il trapianto di cuore del 2012 dopo venti mesi di attesa, è una parabola potente di fragilità umana e determinazione.
Ogni intervento, ogni sfida medica superata, sembrava riflettere la sua stessa filosofia di vita: una lotta incessante per il potere, per l’influenza, per la sopravvivenza.
La sua scomparsa segna non solo la perdita di un politico di spicco, ma anche la chiusura di un’epoca nella storia americana, un’epoca segnata da guerre, da decisioni complesse e da un dibattito continuo sul ruolo dell’America nel mondo.
Il suo lascito, intriso di ambiguità e contraddizioni, continuerà a essere oggetto di studio e di discussione per le generazioni future.







