Al centro del palcoscenico si erge una struttura architettonica in legno, un omaggio evocativo al Globe Theatre shakespeariano, che introduce lo spettacolo inaugurale della stagione dell’Ambra Jovinelli: una rielaborazione brillante e originale di “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”, l’opera di Tom Stoppard che, già trasposta con successo cinematografico nel 1990, gli valse il prestigioso Leone d’oro a Venezia.
La rappresentazione prosegue fino al 16 novembre, preludio a un’imminente e ambiziosa tournée.
Questa parete, ben presto, si rivela un ingegnoso meccanismo scenico, opera del visionario scenografo Luigi Ferrigno.
Non è semplice decorazione, bensì un cubo metamorfico, un teatro nel teatro che si apre, si configura in modi inaspettati, si espande e si contrae, trasformandosi in una strada, un castello, una nave, il sipario che si solleva come una vela pronta a navigare.
È un caleidoscopio di trasformazioni, un gioco di prospettive che amplifica la narrazione, un universo di possibilità teatrali dove si muovono i personaggi, sospesi tra realtà e finzione.
Francesco Pannofino e Francesco Acquaroli, in una sinergia artistica esemplare, incarnano i due protagonisti, affiancati da Paolo Sassanelli, figura chiave come capocomico del gruppo di attori diretti a Elsinore.
Andrea Pannofino e Chiara Mascalzoni danno corpo ad Amleto e Ofelia, interpretando anche altri personaggi cruciali, sotto la direzione registica attenta e innovativa di Alberto Rizzi.
Rosencrantz e Guildenstern, i due cortigiani al centro della narrazione, sono investiti del compito delicato e ambiguo di sondare le cause della profonda crisi esistenziale che affligge Amleto, un tormento che si manifesta sia nel suo animo che nel suo comportamento.
Incapaci di fornire risposte definitive, vengono poi incaricati di traghettare il principe verso l’Inghilterra, con la macabra missione di sigillarne il destino.
Tuttavia, la loro ineluttabile sorte si inverte, mentre Amleto riesce a eludere la morte, sostituendoli nel viaggio verso un futuro incerto.
L’essenza dello spettacolo risiede nell’intricato gioco di parole e di situazioni che avvolge i protagonisti, eternamente disorientati, intrappolati in un’attesa senza fine, spettatori involontari di un destino inafferrabile.
La loro condizione evoca immediatamente le figure iconiche di Vladimiro e Estragone, i protagonisti di “Aspettando Godot” di Beckett, figure emblematiche dell’assurdità dell’esistenza.
Sono figure comiche, certamente, ma anche profondamente tragiche, che affrontano con umorismo amaro la sconcertante irrazionalità della vita, senza mai raggiungere una vera comprensione.
La sfida stilistica si traduce in una rigorosa eliminazione di ridondanze linguistiche, un divieto di sinonimi, un’astensione dalle domande retoriche, un’evitamento delle negazioni, spingendo il linguaggio a esplorare i confini del significato.
In questo contesto, emerge una riflessione profonda sulla morte, sia come fenomeno scenico che come realtà ultima, una disamina che mette in discussione la sua rappresentazione convenzionale.
La morte, sostengono i personaggi, non è sangue, rantoli, barcollamenti, ma un semplice, irrimediabile sparizione: un uomo che scompare, improvvisamente, per sempre.
Lo spettacolo si muove in un delicato equilibrio tra l’umorismo verbale tipico del teatro inglese e la vivacità, la complicità e l’improvvisazione tipiche della Commedia dell’Arte.
È una danza complessa tra pensiero e farsa, tra battute pungenti e momenti di intensa tensione emotiva, tra parole e gestualità espressiva, tra le ombre del dramma shakespeariano e i paradossi esistenziali che li illuminano.
Attraverso gli occhi dei protagonisti, la tragedia si trasforma in un’esperienza astratta e comica, vibrante di vita e colore, grazie al loro straordinario affiatamento e alla velocità incalzante della recitazione, che non concede respiro per un’ora e mezza di spettacolo intenso e appassionante, che conclude con un’ovazione calorosa e sentita.







