L’osservazione era diventata un’ansia silenziosa.
La giovane, tredicenne in fiore, aveva progressivamente abbandonato la vivacità che la contraddistingueva, lasciando il posto a un’aura di distacco quasi impenetrabile.
La sua presenza, un tempo irradiava energia e risate, si era affievolita, lasciando spazio a un’apparente indifferenza verso il mondo esterno.
Le ore si susseguivano scandite dal rituale ossessivo di uno schermo luminoso, uno smartphone divenuto rifugio e, forse, prigione.
Questa metamorfosi, in un’età delicata come la sua, non poteva passare inosservata.
I genitori, custodi attenti del suo benessere emotivo, percepirono la frattura con un senso di smarrimento.
La loro figlia, un tempo un raggio di sole, sembrava essersi eclissata dietro una barriera invisibile.
L’istinto genitoriale, più che un timore razionale, li spinse a una vigilanza discreta, un’indagine silenziosa volta a decifrare i segnali di un cambiamento profondo.
Non si trattava di una semplice fase adolescenziale, ma qualcosa di più complesso, un malessere sotteso che si manifestava attraverso l’isolamento e l’immersione digitale.
La loro indagine, condotta con delicatezza e comprensione, non mirava a reprimere, ma a comprendere.
Cercavano le crepe nel muro di silenzio, le parole non dette, i bisogni inespressi.
Sapevano che l’apparente assenza era probabilmente un sintomo, non la malattia stessa.
Dietro quella maschera di indifferenza, si celava un universo di emozioni da esplorare, una storia personale in attesa di essere narrata.
E i genitori, armati di pazienza e amore, erano pronti ad ascoltare.





