La recente sentenza della Corte d’Appello di Lecce riapre una ferita profondissima per la città di Taranto, consolidando un percorso giudiziario volto a quantificare i danni ambientali, economici e sociali derivanti dalla gestione, nel corso dei decenni, dell’ex Ilva.
La decisione, che conferma e in parte innalza le condanne già stabilite in primo grado, vede responsabili, in solido, Fabio Arturo Riva, erede del defunto Emilio Riva, storico patron dell’acciaieria, e Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento.
L’ammontare complessivo dei risarcimenti, pari a circa 21 milioni di euro, è destinato a distribuirsi tra il Comune di Taranto, l’azienda dei trasporti pubblica Amat-Kyma Mobilità e l’azienda per l’igiene urbana Amiu-Kyma Ambiente, quest’ultima gravata di oneri straordinari a causa dell’inquinamento.
Il provvedimento non si limita a una mera compensazione economica; rappresenta un atto di giustizia che riconosce l’impatto devastante di un’industria titanica sulla vita di una comunità intera.
Il risarcimento destinato al Comune, significativamente incrementato rispetto alla precedente sentenza, si articola in voci distinte.
Si tratta di una cifra ingente – 18 milioni di euro – destinata a sanare il danno non patrimoniale, ovvero la lesione subita dall’immagine, dalla reputazione e dall’identità storica e culturale della città.
Questo riconoscimento sottolinea come l’inquinamento industriale non si limiti a un mero danno economico, ma erode il tessuto sociale e l’orgoglio di un intero territorio.
A ciò si aggiungono 2,5 milioni di euro, più IVA, per i danni patrimoniali direttamente arrecati al patrimonio immobiliare comunale, in particolare nei quartieri di Città Vecchia e Paolo VI, aree densamente popolate e particolarmente vulnerabili all’impatto ambientale.
Ulteriori somme, rispettivamente di 500.000 euro e 23.000 euro, sono destinate alla copertura dei danni materiali subiti dalle strutture scolastiche e alle spese di manutenzione del Plesso Gabelli, testimoniando come la presenza dell’acciaieria abbia compromesso anche il diritto all’istruzione e alla salute dei giovani tarantini.
Le aziende partecipate, Amat e Amiu, ricevono risarcimenti specifici per i costi aggiuntivi sostenuti a causa dell’inquinamento.
Amat, ad esempio, è stata costretta ad affrontare maggiori oneri per la sostituzione dei materiali utilizzati, mentre Amiu ha dovuto incrementare le attività di pulizia e lavaggio delle strade, implementando nuovi sistemi e dotando i propri dipendenti di protezioni individuali, come le tute integrali.
Questo evidenzia come l’inquinamento abbia gravato non solo sull’ente pubblico, ma anche sui servizi essenziali offerti alla comunità.
La sentenza, sebbene accolta con cauto ottimismo, apre un dibattito cruciale sulla responsabilità delle grandi industrie nei confronti del territorio e delle comunità che le ospitano.
Il riconoscimento del danno non patrimoniale, in particolare, segna una svolta nella giurisprudenza, aprendo la strada a future richieste di risarcimento per danni ambientali e sociali di ampia portata.
Il caso Ilva di Taranto, dunque, non si conclude con questa sentenza, ma rappresenta un punto di partenza per una riflessione più ampia sul rapporto tra sviluppo industriale e sostenibilità ambientale.
La speranza è che i fondi destinati al risarcimento vengano impiegati per progetti di riqualificazione ambientale, di sostegno alle fasce più vulnerabili della popolazione e di promozione di un futuro più sano e prospero per la città di Taranto.






