Un’onda di protesta ha investito Bologna il giorno dello sciopero generale indetto dall’Unione Sindacale di Base (USB), manifestando un’incontrollabile rabbia e una ferma presa di posizione.
Un mosaico variegato di partecipanti – studenti delle scuole superiori, collettivi universitari, lavoratori dell’istruzione, attivisti – ha tessuto una fitta rete di cortei che hanno attraversato il cuore pulsante dell’area universitaria, passando per il Provveditorato e il Rettorato dell’Università di Bologna, per culminare in una vibrante occupazione di Piazza Maggiore.
La piazza si è trasformata in un palcoscenico di solidarietà internazionale, con un’esibita ondata di bandiere palestinesi e striscioni che esprimevano una chiara rivendicazione: la rottura immediata di ogni forma di collaborazione con lo Stato di Israele, la difesa incondizionata di Gaza e l’urgenza di fermare un genocidio che continua a mietere vittime innocenti.
Il sostegno alla Global Sumud Flotilla, simbolo di resistenza e aiuto umanitario, si è affiancato al grido unanime: “Blocchiamo tutto, con la Palestina nel cuore”.
La manifestazione non si è limitata a un mero atto di protesta; si è configurata come una mobilitazione complessa, animata da una profonda riflessione critica.
Il percorso, pianificato per proseguire verso Piazza dell’Unità, nella zona Bolognina, attraverso vie strategiche come Ugo Bassi, Marconi, Amendola, il viale della stazione e via Donato Creti, mirava a estendere il messaggio di contestazione all’intera città.
L’atto di vandalismo, l’incendio di un cassonetto in prossimità dell’area universitaria, ha segnato, con un gesto simbolico, la frustrazione e la rabbia di un movimento che si sente impotente di fronte all’escalation della violenza.
Federico Guerra, esponente di USB, ha delineato la natura intrinsecamente politica dello sciopero, sottolineando come il mondo del lavoro non fosse semplicemente in afflizione per la situazione palestinese, ma fosse determinato a riconoscere l’origine strutturale del conflitto.
La denuncia si è focalizzata sull’economia di guerra, identificata come motore principale dei genocidi e della fame che affliggono intere popolazioni.
Lo sciopero, quindi, si presentava come un atto di solidarietà, ma anche come un’affermazione di priorità politiche e sociali: un rifiuto della guerra, un diniego alla complicità nel genocidio, e una rivendicazione di un’economia sociale che metta al centro le necessità primarie – case, scuole, sanità – piuttosto che la produzione di armi.
L’opposizione a Re Army Europe, la denuncia dell’aumento della spesa militare imposta dalla NATO, si sono configurate come tasselli di una strategia più ampia, volta a contestare l’ordine globale e a promuovere un futuro basato sulla pace, sulla giustizia sociale e sulla cooperazione internazionale.
Il grido era chiaro: non solo solidarietà alla Palestina, ma una radicale trasformazione del sistema economico e politico che rende possibile simili tragedie.