lunedì 15 Settembre 2025
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Parma, processo Petrolini: cartellini e riserbo tra dolore e giustizia.

Un cartellino adesivo, un giallo intenso come un’eco di promesse infrante, con un numero stampato in blu cobalto, si presentava come biglietto di accesso forzato all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Parma.
I numeri, fino al trenta, erano assegnati ai giornalisti e al pubblico presente per il processo a Chiara Petrolini, la giovane donna accusata di un’atroce infanticidio: l’occultamento dei corpi dei suoi due figli neonati, seppelliti nel giardino della sua abitazione a Traversetolo, aveva scosso profondamente la comunità.

Il gesto, apparentemente banale, evocava un senso di controllo, una barriera eretta tra la sfera pubblica e un dramma personale di tale portata da richiedere una gestione meticolosa.

L’adozione di questo sistema di “filtraggio a campione”, un protocollo mutuato da contesti ordinari come l’ufficio postale o il supermercato, segnava un netto distacco dalla precedente gestione dell’accesso al tribunale.

Questa seconda udienza, a differenza della prima tenutasi a fine giugno, abbandonava l’accreditamento pre-esistente, stabilendo una rigorosa priorità basata sull’ordine di arrivo, un principio democratico paradossalmente applicato in un contesto tanto doloroso.
Era un tentativo di garantire un accesso equo, seppur limitato, in un momento in cui la domanda di testimonianza, di comprensione, rischiava di sopraffare le risorse del tribunale.
La proibizione di telecamere, ripetuta con insistenza al checkpoint, sottolineava la delicatezza del caso, il bisogno di proteggere la dignità delle parti coinvolte, non solo dell’imputata ma anche dei familiari e dei testimoni.

La concessione di un breve intervallo fotografico, cinque minuti al principio di ogni sessione di udienza, era un compromesso, un tentativo di conciliare il diritto all’informazione con la necessità di preservare un certo livello di riserbo.

Era un’immagine catturata frettolosamente, un frammento di verità parziale in un mosaico di dolore e accuse, un tentativo di documentare, senza invadere, un evento traumatico che si consumava tra le mura silenziose della giustizia.

Il cartellino giallo, il numero blu, la foto fugace: simboli di un processo che, al di là delle prove e delle argomentazioni legali, rappresentava un profondo interrogativo sulla fragilità umana e sulle tenebre che possono albergare nel cuore di una madre.

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