Il peso di un ricordo, la ferita aperta di un’ingiustizia che non si rimarginerà mai.
Oggi, come tanti altri giorni, il dolore si fa più acuto, amplificato dalla persistente richiesta di Fabio Savi, uno dei responsabili della tragica fine di mio marito, di poter accedere a un permesso di lavoro esterno al carcere.
La decisione del magistrato, che ha negato questa possibilità, ha suscitato un sentimento complesso: non gioia, ma un fragile, temporaneo sollievo.
Trentacinque anni.
Un quarto di secolo e quattro anni sono trascorsi da quando Primo Zecchi, un uomo integro e dal forte senso civico, fu brutalmente assassinato in via Zanardi, a Bologna.
La sua colpa? Essere stato testimone di una rapina e aver avuto il coraggio di annotare la targa dell’auto utilizzata dai criminali.
Un gesto, apparentemente banale, che gli costò la vita, vittima della furia inaudita della “banda della Uno bianca”, un’ombra che per anni ha insanguinato il territorio, lasciando dietro di sé un bilancio terribile: ventiquattro morti e innumerevoli feriti.
La cerimonia commemorativa di questa mattina ha visto la partecipazione delle autorità, il Prefetto e il Questore presenti per onorare la memoria di Primo.
Ricordo un uomo profondamente sensibile alle ingiustizie, un uomo che non poteva restare indifferente di fronte alla sofferenza altrui, sempre pronto ad offrire il suo aiuto.
La sua integrità morale lo portò ad agire, a documentare un crimine, una scelta che gli costò il prezzo più alto.
La “banda della Uno bianca” non fu semplicemente un gruppo di criminali, ma una piaga sociale, un’organizzazione che si avvalse della menzogna e della simulazione, travestendosi da qualcosa che non era, per perpetrare le proprie azioni criminali, generando paura e terrore nella comunità.
Hanno profanato, calpestato un simbolo, la divisa che dovrebbe rappresentare l’ordine e la sicurezza, trasformandola in uno strumento di violenza e oppressione.
Primo, al contrario, incarnava il vero spirito civico, la dignità dell’uomo che si erge contro l’ingiustizia.
La sua reazione, il suo coraggio, non sono stati premiati, ma puniti con la morte.
La sua assenza lascia un vuoto incolmabile, un dolore che si tramanda di generazione in generazione.
I responsabili della sua morte, e di tante altre vite spezzate, continuano a rappresentare una minaccia, una ferita aperta nel tessuto sociale.
La loro detenzione, la loro incapacità di reintegrarsi, riflettono una pericolosità intrinseca che non può essere ignorata.
Il loro posto è dietro le sbarre, a espiare la colpa di crimini efferati che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della nostra città e nel cuore di chi li ha conosciuti.
Il ricordo di Primo Zecchi, e di tutte le vittime della “banda della Uno bianca”, deve rimanere vivo, un monito costante contro l’indifferenza e un impegno continuo per la giustizia e la legalità.