Il caso, che ha visto protagonista una cittadina cubana e la sorella, si è concluso con una sentenza controversa che solleva interrogativi profondi sul delicato rapporto tra accusa, difesa, prove e, soprattutto, sulla tutela delle vittime di presunti abusi da parte delle istituzioni. I fatti, risalenti a novembre 2020, avevano portato alla denuncia di violenze sessuali all’interno della Questura di Bologna, in seguito a un fermo stradale. Inizialmente, l’indagine riguardante i presunti responsabili era stata archiviata, per poi riemergere con l’avvio di un procedimento penale a carico delle due donne.La sentenza del Tribunale ha condannato la denunciante a tre anni di reclusione per calunnia e simulazione di reato, pur assolvendola da ulteriori accuse, tra cui la resistenza a pubblico ufficiale e la simulazione relativa alle presunte violenze subite dalla sorella. Quest’ultima è stata anch’essa assolta da ogni addebito.L’avvocato Fabio Anselmo, insieme al collega Gianfranco Di Florio, difensori delle due donne, ha sottolineato come il numero elevato di assoluzioni rappresenti un elemento significativo, lasciando però inalterata l’incomprensibilità di una circostanza cruciale: l’inserimento tardivo, a distanza di quasi tre anni, di un video proveniente dal sistema di videosorveglianza della Questura all’interno del fascicolo d’ufficio. Questo video, presentato come “insindacabile atto amministrativo”, è stato acquisito senza che la difesa avesse la possibilità di partecipare alle operazioni tecniche di acquisizione e verifica.La gestione di questa prova, giunta in un momento così avanzato del procedimento, desta serie perplessità sul rispetto dei diritti di difesa e sulla correttezza del processo. L’avvocato Anselmo, in assenza delle motivazioni della sentenza, esprime la preoccupazione che la condanna sia legata unicamente alle dichiarazioni relative alle violenze sessuali, evidenziando il profondo trauma subito dalla sua assistita. Un evento particolarmente drammatico è la somministrazione forzata di un farmaco sedativo, che ha richiesto l’intervento di un anestesista rianimatore per ripristinare le funzioni vitali durante il ricovero ospedaliero successivo, testimonianza tangibile della vulnerabilità e dello stato di shock in cui la donna versava.Il caso solleva interrogativi fondamentali sulla necessità di garantire una maggiore trasparenza e di tutelare la riservatezza delle vittime di presunti abusi, assicurando al contempo un processo equo e imparziale, in cui tutte le prove siano acquisite e valutate nel pieno rispetto dei diritti di difesa. La vicenda pone l’attenzione sulla complessità di un sistema giudiziario che, nel suo operare, deve bilanciare l’obbligo di accertare la verità con la necessità di proteggere le vittime e di preservare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Sentenza controversa a Bologna: tra violenza, calunnia e prove nascoste.
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