L’udienza preliminare relativa all’imputazione di stalking a carico della stilista Elisabetta Franchi, in relazione agli eventi verificatisi a Bologna, ha subito un rinvio al 22 ottobre.
La decisione è stata presa dal giudice per le indagini preliminari (GIP) Andrea Romito, in seguito a una questione di diritto sollevata dalla difesa, rappresentata dagli avvocati Paolo Creta e Gianmaria Palmintieri.
La questione verte sulla richiesta di accesso, da parte della Procura, ai dati contenuti nel dispositivo telefonico della presunta vittima, una ex-consulente della stilista.
La difesa ha contestato la legittimità di tale richiesta, argomentando che potrebbe compromettere diritti fondamentali e che la mancata acquisizione del dispositivo mobile di Franchi, per un’analoga analisi, creerebbe un evidente squilibrio procedurale.
Tale circostanza solleva interrogativi sulla parità delle armi e sull’equo processo, principi cardine del sistema giudiziario.
L’avvocato Antonio Petroncini, subentrato alla collega Chiara Rinaldi nella rappresentanza della parte civile, ha espresso forte disapprovazione per la richiesta della Procura, definendola una forma di “vittimizzazione secondaria” particolarmente grave, che aggrava la condizione della persona offesa.
La questione pone in luce le complesse dinamiche psicologiche e legali che si innescano in casi di stalking e diffamazione online, dove la protezione della vittima deve conciliare la necessità di accertamento della verità con il rispetto dei diritti costituzionali.
Le accuse mosse a Franchi, frutto di un’indagine condotta dalla squadra mobile, si fondano su una serie di comportamenti volti a screditare pubblicamente e privatamente l’ex-consulente, con cui in passato aveva intrattenuto un rapporto di amicizia.
Al centro della vicenda si colloca un post pubblicato su Instagram, che ha innescato una reazione virale, una vera e propria “shitstorm” amplificata dalla vasta platea di follower della stilista.
Il messaggio, intriso di un linguaggio accusatorio e denigratorio, ha generato un’ondata di commenti diffamatori rivolti alla presunta vittima, esacerbando il suo stato emotivo e la sua reputazione.
La formulazione del post, con riferimenti impliciti e accuse velate, ha permesso ai follower di identificare facilmente la persona bersaglio, culminando nell’adozione di un soprannome derisorio.
Questo caso evidenzia il ruolo amplificatore dei social media in dinamiche di conflitto interpersonale, in cui una singola azione, apparentemente contenuta in un post, può scatenare una reazione collettiva di diffamazione e cyberbullismo.
L’episodio solleva interrogativi etici e legali sull’uso dei social media, sulla responsabilità degli utenti e sulla necessità di tutelare la privacy e la reputazione delle persone nell’era digitale.
La vicenda mette inoltre in luce la fragilità dei rapporti interpersonali nell’ambiente lavorativo e la potenziale deriva di conflitti che possono essere amplificati dall’utilizzo di piattaforme online.