Il caso Ylli Vangjelaj, ex detenuto liberato a Bologna dopo un percorso giudiziario tortuoso e intricato, solleva questioni complesse di diritto penale internazionale, sovranità statale e principio del *ne bis in idem*.
La vicenda, che ha visto un condannato per omicidio rientrare in carcere in Italia dopo anni di fuga e precedenti detenzioni in Albania, incarna le sfide poste dalla globalizzazione e dalla cooperazione giudiziaria transfrontaliera.
Il crimine, che ha strappato la giovane Betty Yadira Ponce Ramirez alla vita nel dicembre del 1999 a Piacenza, si inserisce in un contesto di grave sfruttamento della prostituzione, un’attività criminale che genera profitti illeciti e alimenta la tratta di esseri umani.
L’efferato omicidio scosse profondamente la comunità locale e portò all’identificazione di tre responsabili: Erjon Sejdiraj, Robert Ziu e Ylli Vangjelaj.
Inizialmente latitanti, i tre furono condannati in assenza dalla Corte d’Assise di Piacenza, con pene severe che includevano l’ergastolo per Sejdiraj, ritenuto il capo dell’organizzazione.
La successiva localizzazione e arresto dei fuggitivi, operazione resa possibile dall’operatività dei Carabinieri, ha innescato un complesso braccio di ferro tra i due Paesi.
L’Albania, pur riconoscendo la condanna italiana, ha inizialmente rifiutato l’estradizione di Vangjelaj, sostenendo che l’uomo avesse già scontato la pena nel suo territorio.
Questa decisione si basava sul riconoscimento della sentenza italiana da parte della giustizia albanese, con una pena rideterminata in undici anni e una parziale remissione di tre.
La successiva cattura di Vangjelaj in Grecia e la sua estradizione in Italia hanno riaperto la questione, portando a un contenzioso legale che si è concluso con la liberazione dell’uomo.
La Corte d’Assise di Appello di Bologna, dopo un’attenta valutazione e a seguito di un rinvio da parte della Cassazione, ha accolto l’istanza di difesa, avanzata dagli avvocati Savino Lupo e Daniele Sussman Steinberg, sulla base del principio del *ne bis in idem*, un cardine del diritto che vieta di sottoporre un individuo a una seconda pena per lo stesso reato.
La sentenza bolognese ha sollevato un acceso dibattito, evidenziando le difficoltà di coordinamento tra i sistemi giudiziari di Paesi diversi e la necessità di definire criteri chiari per la riconoscimento delle pene inflitte all’estero.
La vicenda del caso Vangjelaj mette in luce le tensioni tra la necessità di garantire la giustizia per la vittima e la sua famiglia e il rispetto dei diritti fondamentali dell’imputato, con particolare riferimento al principio del *ne bis in idem*, che tutela l’individuo da trattamenti potenzialmente lesivi derivanti da una reiterata punizione per lo stesso fatto.
Il ritorno di Vangjelaj in Albania segna la conclusione di una vicenda giudiziaria che ha toccato profondamente le istituzioni e la collettività, lasciando aperta la questione su come gestire in futuro casi simili, garantendo al contempo l’effettività della giustizia e il rispetto dei diritti umani.