Una marea silenziosa di ventimila nomi, appesi come un macigno di dolore sulla facciata di un edificio simbolo di Piacenza, increspa la quiete della città.
Non sono semplicemente parole scritte, ma frammenti di vite spezzate, echi di speranze infrante, un’accusa inappellabile contro l’indifferenza del mondo.
Ogni nome, accompagnato da luogo e data di nascita e dall’età al momento della morte, rappresenta una tragedia individuale, un tassello di un mosaico di sofferenza che definisce la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza.
L’installazione, promossa dalla Comunità Islamica piacentina con il sostegno dell’amministrazione comunale, trascende l’atto di protesta per elevarsi a monumento commemorativo.
L’assessora Serena Groppelli, in una dichiarazione che ribadisce l’impegno della città verso i valori di pace e giustizia, sottolinea come questa iniziativa sia un imperativo morale, un’affermazione della sacralità dell’infanzia in un contesto di conflitto devastante.
Non si tratta di una generica invocazione alla pace, ma di una denuncia specifica della violazione sistematica del diritto internazionale da parte di Israele, una violazione confermata dalla Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite, che ha formulato l’accusa di genocidio.
L’installazione non è un gesto isolato, ma un appello all’azione.
Yassine Baradai, segretario Ucoii, descrive l’opera come un punto di riflessione, un luogo dove “fermarsi, alzare la testa al cielo e pregare”, ma anche come un catalizzatore per un impegno più profondo nella lotta contro l’orrore che minaccia di prevalere.
La memoria di queste ventimila vite innocenti, sostiene, deve essere il combustibile per un’azione non violenta, ma potente, capace di scuotere le coscienze e di sollecitare un cambio di rotta.
L’evento pone un interrogativo urgente: come conciliare l’indifferenza con la coscienza? Come può una società civile rimanere silente di fronte a una perdita di vite così massiccia, soprattutto quando si tratta di bambini, la promessa stessa del futuro? Questa installazione, con la sua potenza evocativa, non offre risposte facili, ma invita a una riflessione collettiva, a un’assunzione di responsabilità, a un impegno concreto per la giustizia e la protezione dei diritti umani, affinché l’eco di questi ventimila nomi non si perda nel vento, ma risuoni come un monito per le generazioni a venire.
L’azione, in definitiva, diventa un atto di dignità, un tributo a chi non c’è più e una speranza per un futuro più giusto.