La disperazione si manifesta con un linguaggio tagliente, un grido lacerante che spezza il silenzio dell’impossibile.
“Non perdono mio figlio, se ha commesso quel gesto, merita l’inferno”.
Le parole, come schegge di vetro, sono state pronunciate dalla madre di Emanuele Ragnedda, figura di spicco nel panorama enologico di Arzachena, in seguito all’ammissione di aver utilizzato un’arma da fuoco per porre fine alla vita di Cinzia Pinna, una giovane donna di 33 anni proveniente da Castelsardo.
L’evento, irruzione di violenza in un contesto apparentemente idilliaco, ha scosso profondamente la comunità sarda.
Il racconto, ancora frammentario e avvolto nella nebbia delle indagini, solleva interrogativi scomodi su dinamiche complesse, equilibri fragili e responsabilità individuali.
La confessione di Ragnedda non chiude un capitolo, ma ne apre uno doloroso, fatto di domande senza risposta, di ricordi traumatici e di un vuoto incolmabile.
Il mondo del vino, spesso percepito come simbolo di tradizione, eleganza e convivialità, si confronta con un’ombra







