giovedì 4 Settembre 2025
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Processo Grillo: la vittima tra trauma, colpa e manipolazione.

Il processo che vede Ciro Grillo e altri tre imputati accusati di violenza sessuale su una giovane donna italo-norvegese, ha assunto una nuova, drammatica luce con la replica dell’avvocata Giulia Bongiorno, difensore della parte civile.

L’esame in corso, al di là delle accuse formali, si configura come un’analisi complessa delle dinamiche psicologiche che seguono un trauma di tale portata, e del tentativo, spesso distorto, di ridurne la gravità attraverso la contestazione del comportamento della vittima stessa.

La strategia difensiva, incentrata sull’individuazione di elementi che possano insinuare dubbi sulla veridicità della denuncia, si è manifestata attraverso un’analisi dettagliata della vita della giovane donna, evidenziando la frequenza con cui ha scattato fotografie nei mesi successivi all’episodio di Porto Cervo.
La provocazione lanciata dall’avvocata Bongiorno – “Una foto in topless sarebbe incompatibile con un trauma subito?” – ha mirato a destabilizzare l’immagine della vittima, suggerendo una contraddizione tra la presunta sofferenza e la sua apparente normalità.

Tuttavia, la replica ha compiuto un passaggio cruciale, illuminando un aspetto spesso sottovalutato: il meccanismo di autocolpevolizzazione che si attiva nelle vittime di violenza sessuale.

“È la prima reazione di una donna dopo una violenza,” ha spiegato Bongiorno, sottolineando come la vittima, interiorizzando un senso di colpa, tenda a ricercare le cause del trauma in un proprio comportamento, minimizzando la responsabilità degli aggressori.

La testimonianza rivelata, una registrazione vocale indirizzata ad un’amica, è stata interpretata come prova tangibile di questo meccanismo di autocompromissione: la frase “Qualsiasi cosa abbiamo fatto quei tizi me la sono cercata” è stata presentata come una dimostrazione della vittima che attribuisce a sé stessa la responsabilità dell’accaduto.
L’avvocata ha poi riaffrontato due punti chiave già sollevati durante il processo: l’elevato consumo di alcol da parte della giovane donna, che ne avrebbe compromesso la lucidità, e l’episodio del tabaccaio.

La negazione della vittima di aver accompagnato gli imputati a comprare le sigarette, in contrasto con le loro dichiarazioni, è stata supportata dall’assenza di riscontro nei dati dei dispositivi mobili, sia dei ragazzi che della stessa donna.
Bongiorno ha insistito sul fatto che la sua assistita non avrebbe lasciato la villetta, contraddicendo le versioni degli accusati.
La vicenda si configura, quindi, non solo come un processo penale, ma come un’indagine profonda sulle dinamiche della colpa, della vergogna e del trauma, e sulla tendenza, per quanto ingiusta, a delegittimare la vittima, traslando la responsabilità del torto subito su di lei.
L’analisi critica dell’avvocata Bongiorno, con la presentazione di elementi apparentemente contraddittori, solleva interrogativi fondamentali sulla complessità del processo di guarigione e sulla fragilità della fiducia nelle istituzioni in casi di questo genere.

La giustizia, in questo contesto, si trova a navigare in acque agitate, dove la verità si confonde con la manipolazione e il dolore si cela dietro una facciata di normalità.

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