Un’eco di impotenza, un’ombra che si protende dai recessi più oscuri dell’infanzia, si materializza in certi ricordi.
Non un semplice rimpianto o nostalgia, ma una sensazione tangibile, quasi fisica, che risuona con l’angoscia più profonda di alcuni incubi maturi.
È l’esperienza della piccolezza assoluta, della paralisi esistenziale di fronte a un evento che ci trascende, un’impossibilità di intervenire, di reagire, di esprimere anche il più piccolo dissenso.
Ci si sente fragili, marginali, ridotti a spettatori passivi di una scena che ci coinvolge con una forza ineluttabile.
Salvatore Mereu, con il suo cortometraggio “Su cane est su miu”, presentato in gara ai Corti d’autore del Festival di Locarno, evoca con precisione questo stato d’animo.
Il film sembra incanalare un sentimento complesso, difficile da etichettare, che gli inglesi definiscono “second-hand embarrassment”.
Questa definizione, sebbene inadeguata a racchiudere l’intera gamma di emozioni suscitate, si avvicina alla comprensione di quell’imbarazzo profondo che si prova nell’immedesimazione nelle azioni altrui, come se l’angoscia diventasse propria, ereditata, amplificata.
Non si tratta semplicemente di imbarazzo per qualcuno che commette un errore sociale, ma di una connessione empatica talmente intensa da farci rivivere la vergogna altrui come fosse una nostra.
È l’empatia portata all’estremo, una sorta di “contagio emotivo” che ci costringe a confrontarci con la vulnerabilità umana, con la precarietà delle relazioni e con la difficoltà di controllare il proprio destino.
Mereu, con la sua regia, sembra voler sondare le profondità di questa dinamica, svelando la sua natura ambivalente: da un lato, l’esperienza può essere fonte di profonda sofferenza, dall’altro, può rivelare una connessione umana potente e inattesa.
Il cortometraggio non offre risposte consolatorie, ma invita lo spettatore a confrontarsi con la propria capacità di immedesimazione, con la propria vulnerabilità emotiva e con la complessità delle relazioni umane.
È un’indagine delicata e penetrante sulla natura dell’empatia, un viaggio nell’ombra dei ricordi infantili e una riflessione sulla difficoltà di sfuggire al peso delle azioni altrui.
L’opera, in definitiva, è un potente esercizio di introspezione che ci costringe a interrogarci sul significato di essere piccoli, impotenti, eppure profondamente connessi agli altri.