La Sardegna si trova a navigare un mare di contraddizioni nel suo panorama economico e sociale.
Pur mostrando segnali di ripresa occupazionale, la sua struttura produttiva, profondamente radicata in settori tradizionali a bassa intensità tecnologica, si rivela un freno allo sviluppo sostenibile e all’adeguamento alle sfide del XXI secolo.
Il quadro emergente non è di semplice ottimismo, bensì di una complessa dialettica tra progressi apparenti e fragilità strutturali che rischiano di compromettere il futuro dell’Isola.
Il ricambio generazionale, elemento vitale per la vitalità di qualsiasi economia, si trascina con lentezza, aggravato da un mercato del lavoro che, pur avendo registrato un aumento di 30.
000 occupati tra il 1991 e il 1996, non riesce a offrire garanzie stabili, concentrando i rischi – precarietà, disoccupazione, contratti atipici e part-time involontario – su giovani e donne.
Questa condizione spinge i talenti più dinamici e istruiti a cercare opportunità al di fuori della Sardegna, innescando un circolo vizioso di spopolamento e invecchiamento demografico, particolarmente acuto nelle aree interne e marginali.
Il calo di popolazione tra i 20 e i 64 anni, pari a 118.
000 unità nell’ultimo decennio, con una contrazione ancora più marcata tra i giovani (22,3% contro una media nazionale del 4,6%), preannuncia una nuova ondata di esodo se non saranno implementate politiche mirate.
Le proiezioni suggeriscono una perdita di 122.
000 unità in età lavorativa nel prossimo decennio, con un impatto devastante sul numero degli occupati e un conseguente assestamento del reddito pro-capite, eroso ulteriormente dall’inflazione.
La dipendenza dal lavoro stagionale, che in Sardegna incide sul 58% della domanda di lavoro – più del doppio della media nazionale – accentua la precarietà e limita le prospettive di crescita professionale, intrappolando una quota significativa della forza lavoro in impieghi a basso valore aggiunto.
L’emigrazione dei laureati, che dopo 5 anni dal conseguimento del titolo trovano impiego al di fuori dell’Isola in una percentuale pari al 20%, rappresenta una perdita di capitale umano inestimabile, privando la Sardegna di competenze cruciali per l’innovazione e la competitività.
Tuttavia, le analisi rivelano un potenziale inespresso.
Se l’economia sarda operasse con la stessa efficienza delle regioni più performanti, migliorando i processi produttivi, investendo in tecnologia e formazione del capitale umano, il valore aggiunto potrebbe aumentare di circa il 12%, corrispondenti a 9 miliardi di euro in termini di PIL.
Questo dato non è un miraggio, ma una chiara indicazione delle opportunità mancate e della necessità di un cambio di paradigma.
La sfida, quindi, non è semplicemente quella di misurare l’aumento dell’occupazione, ma di analizzare la *qualità* di quell’occupazione, la sua capacità di generare reddito, benessere e opportunità per tutti i cittadini sardi.
La necessità di un’analisi più profonda, che vada oltre i numeri positivi e che ponga al centro la qualità del capitale umano, la produttività e l’adattabilità alle nuove tecnologie, è sottolineata dagli esperti di CNA Sardegna, Luigi Tomasi e Francesco Porcu, che invitano a una riflessione critica e a un’azione strategica per il futuro dell’Isola.
Si tratta di un imperativo che non ammette compromessi, poiché il destino della Sardegna è appeso a una svolta epocale.